Il Leoncavallo, Askatasuna e il futuro dei movimenti

Da Milano a Torino

Il 21 agosto scorso è stato sgomberato a Milano, dopo un’esperienza durata 50 anni, il Leoncavallo, una delle esperienze di occupazione più longeve nella storia dei movimenti e probabilmente nell’immaginario di tante e tanti il centro sociale per eccellenza. Il 18 dicembre è stato il turno di Askatasuna, a Torino, che indubbiamente è stato negli ultimi 15/20 anni il centro sociale maggiormente in grado di incidere politicamente nel suo contesto cittadino e di avere un peso – limitatamente ai movimenti – anche a livello nazionale.

Partiamo da un presupposto: ogni sgombero, a prescindere da chi lo subisce, segna un punto politico per lo Stato, per la retorica sul ripristino della legalità, per il rientro nella compatibilità democratica di una parte delle classi lavoratrici legate a quello spazio e quindi segna una sconfitta per i movimenti di classe, quale che sia la loro analisi o il loro collocamento politico. A tutte le realtà che subiscono uno sgombero quindi va inequivocabilmente tutta la solidarietà.

Detto questo, è necessario dirci anche che il Leoncavallo ormai da anni non rappresentava più una realtà politica per chiunque facesse parte di collettivi, movimenti, partiti della sinistra rivoluzionaria: la chiusura verso l’interno dello spazio, la preoccupazione di difendere l’orticello ad ogni costo – anche quello del dialogo con il Comune – hanno progressivamente isolato il Leoncavallo dalle soggettività che avrebbero potuto trarre beneficio dalla sua esistenza e difenderlo – politicamente, perché purtroppo come movimento non c’è più la forza di tirare molotov dai tetti – davanti alla minaccia di sgombero. Su queste dinamiche è stata ottima l’analisi del collettivo Militant.

Diverso il caso, come detto, di Askatasuna: indubbiamente cardine di tutti i movimenti torinesi e punto di riferimento della lotta No TAV in Valsusa, è stato colpito non in un momento di debolezza, ma anzi in un periodo in cui Torino ha espresso un livello di conflittualità tra i più alti in Italia (secondo forse solo a Genova) per quanto riguarda la mobilitazione contro guerra e genocidio, culminata nell’attacco – sacrosanto – alla sede de La Stampa usata come pretesto dal ministro Piantedosi per giustificare lo sgombero. Come detto Askatasuna, che aveva avviato un percorso di semi-regolarizzazione secondo il concetto di “bene comune”, era/è a differenza del Leoncavallo una realtà tutto meno che chiusa su sé stessa, e infatti il corteo di solidarietà contro lo sgombero non ha avuto le caratteristiche di una sfilata come è stato per quello di settembre a Milano, ma una manifestazione viva, conflittuale, che ha messo le basi per dare una continuità all’esperienza di Askatasuna.

La distanza tra Milano e Torino, politicamente, è ben maggiore di quella chilometrica.

L’impatto degli sgomberi

Il governo Meloni sgombera quindi nel giro di 4 mesi il centro sociale più simbolico e quello più “forte” d’Italia. Cosa significa per il movimento? Tutto e niente.

Dal momento che non siamo più negli anni ’70, non esiste in Italia nessun movimento, collettivo politico o gruppo organizzato in qualsivoglia modo che sia in grado di resistere allo Stato sul piano della forza. La difesa di un luogo di per sé illegale come un centro sociale occupato è necessariamente una partita che si gioca sul piano politico: fintanto che uno spazio è vissuto non solo da militanti politici, ma in generale da lavoratori e lavoratrici che vivono in una determinata città, i rappresentanti politici, che si trovano a dover bilanciare le esigenze del capitale e della gentrificazione (rientrare in possesso degli immobili) con la necessità di perpetuare il loro potere politico (elettori scontenti=sconfitta elettorale), rimandano lo sgombero fin quando è possibile, attivandosi eventualmente per trovare soluzioni che consentano uno sgombero “dolce”, ad esempio tramite l’assegnazione di un nuovo spazio. Per quanto sia rischioso il dialogo con le istituzioni, nella misura in cui si rischia di rimanere invischiati in un gioco di scambio tra permanenza nell’occupazione e smorzamento delle posizioni politiche, è indubbio che Askatasuna sia riuscito ad usare a proprio vantaggio il percorso di riconoscimento come “bene comune” proprio in virtù della sua forza politica in città.

Il fatto che, nonostante questa posizione di forza nel suo contesto locale, Askatasuna sia stato sgomberato comunque va letto come il risultato di due congiunture: da una parte, il fatto che queste operazioni di sgombero partono sempre più spesso dai prefetti, che non avendo problemi di rielezione danno il via libera agli sgomberi quando le occupazioni sono più deboli (come ad Agosto per il Leoncavallo) o quando gli eventi offrono una giustificazione inattaccabile (l’attacco a La Stampa per Askatasuna), incassando l’avallo di tutti i partiti politici in nome del ripristino di legalità e decoro; dall’altra parte l’astensionismo crescente, soprattutto tra le classi più povere, rende meno sconvenienti da un punto di vista elettorale operazioni di questo tipo, e infatti il sindaco di Torino si è immediatamente accodato alla decisione del prefetto, ritirando il percorso per la dichiarazione di bene comune. Ovviamente il governo ha avuto il bonus di agire in due città governate dal Partito Democratico, segnando un punto utile in chiave elettorale.

Concentrandosi su Askatasuna, che come detto era estremamente attivo e vitale politicamente, è evidente come l’impatto politico, nel senso in cui lo Stato mostra la sua forza per fiaccare la capacità dei compagni e delle compagne torinesi di esprimere conflittualità, sia potenzialmente devastante, ma fortunatamente il momento storico permetterebbe al movimento di assorbire il colpo, usando anzi questo attacco come una leva per rivendicare con maggior forza quello che ad oggi nelle città è il bisogno primario del proletariato: il bisogno di spazio, abitativo e sociale, libero da gentrificazione e da un carovita che ha raggiunto ormai livelli insostenibili per la maggior parte della classe lavoratrice.

Un altro effetto, forse più trascurato ma decisamente pesante, è quanto sia importante uno spazio occupato per il finanziamento dei movimenti: certo, si possono fare le cene nei circoli Arci o le sottoscrizioni ai cortei, ma avere a disposizione spazi in cui organizzare momenti di cultura e socialità alternativa sono economicamente vitali per tutti coloro che fanno politica dal basso. Senza voler mettere il naso negli affari degli altri, questo effetto sarà probabilmente il peggiore sul medio/lungo periodo.

La fine di un’era?

No, nel senso che l’era dei centri sociali era già finita da un pezzo: i centri sociali come realtà politiche e culturali in grado di esercitare un’egemonia su determinati contesti cittadini o regionali hanno esaurito la loro spinta già dopo la fine del movimento No Global, con un parziale colpo di coda durante le proteste dell’Onda del 2008-2011. Le poche realtà rimaste in grado di mantenere un’importanza nel panorama politico dei movimenti sono fondamentali, ma non hanno la capacità di catalizzare intorno a sé le classi subalterne per portare avanti lotte e rivendicazioni.

I mesi passati hanno mostrato però che la possibilità di costruire un movimento di lotta ampio e in grado di intercettare i bisogni di lavoratori e lavoratrici c’è tutta, e passa attraverso “strutture” con caratteristiche molto diverse dai centri sociali canonici.

La sfida è tutta qui: non bisogna intestardirsi ad occupare per occupare, nella speranza di far rinascere una stagione che non può tornare. Si tratta di partire dalla lotta contro gli sgomberi per costruire soggettività politiche nuove, adatte alla fase che viviamo, in grado di relazionarsi dialetticamente con il proletariato per la costruzione di un programma di rivendicazioni e lotta teso a migliorare le condizioni di vita delle masse.

Le occupazioni, se saranno necessarie, verranno di conseguenza.


Gli attacchi alle scuole occupate e il ruolo dei neofascisti oggi

Uno degli effetti positivi della grande mobilitazione popolare in sostegno al popolo palestinese è stato l’ondata di occupazioni delle scuole: anche se non è una novità – occupazioni nelle scuole se ne vedono, con diversi livelli di capillarità e partecipazione, più o meno tutti gli anni – è innegabile che quest’anno per la prima volta da almeno un paio di lustri queste occupazioni si sono andate a costruire all’interno di un clima politico di fermento anche all’esterno.

Dal ’68 in poi in Italia non c’è mai stato un movimento di rivendicazione dal basso senza la presenza forte di studenti e studentesse, che in alcuni casi insieme ai poco più grandi universitari hanno favorito l’accelerazione nella costruzione di una proposta politica alternativa. Non stupisce quindi il coinvolgimento della popolazione studentesca nelle mobilitazioni di questi mesi, che spesso li hanno visti in prima fila – grazie forse anche alle affinità “anagrafiche” con i Giovani Palestinesi d’Italia – nei cortei, negli scioperi, nei blocchi e anche davanti alla repressione dello Stato.

Repressione che da sempre agisce su due binari: se da una parte c’è l’azione giudiziaria, che ha il duplice compito di punire le figure più in vista e di spaventare tutti gli altri fino a fiaccarne l’iniziativa, dall’altra parte c’è il livello repressivo “sommerso”, quello che lo Stato non porta avanti direttamente – o se lo fa è in minima parte – e che appalta invece ai manovali storici della borghesia e delle sue istituzioni: i fascisti.

Premetto che qui lo scopo non è fare un’indagine dettagliata sulle organizzazioni neofasciste, i loro schieramenti, le loro divisioni o altro, quello magari arriverà più in là, tempo permettendo.

Certo è che per questi episodi è proprio al neofascismo “nostalgico” che bisogna guardare, quello macchiettistico fatto di commemorazioni a Predappio, retorica antisistema e bande di picchiatori, in Italia fatto di una miriade di organizzazioni più o meno conosciute ma diffuse capillarmente1, con numeri abbastanza scarsi da nord a sud ma sicuramente con la capacità di aggredire e terrorizzare gruppi di giovanissimi in tanti casi alle prese con la prima esperienza di politica attiva.

Come fa notare Dante Barontini sulle pagine di Contropiano, gli attacchi alle scuole arrivano in rapida successione, sempre con modalità ed esecuzione simili, e sempre con la lenta risposta poliziesca, solitamente solerte nell’intervenire nei pressi di scuole occupate – solitamente anzi presidiate da almeno una pattuglia Digos – e da questi elementi è evidente che dietro agli attacchi nelle varie città ci sia una mano che li ha orchestrati.

Non ho la sicurezza di Barontini nell’affermare che la mano sia quella del governo, non perché ritengo che non ne abbia l’interesse – tutt’altro – ma perché la storia ci insegna che spesso l’apparato statale agisce autonomamente, quando si tratta di ristabilire la pace sociale, e che quando lo fa si serve in modo abbondante dei fascisti.

Appurato che questi attacchi sono di matrice fascista, che sono stati effettuati su commissione e che l’obiettivo è quello di agire in modo complementare all’apparato giudiziario per stroncare sul nascere un forte movimento di protesta nelle scuole – con il rischio che poi si diffonda nel resto della società – è bene dire un paio di cose.

La prima è che è vero che la mobilitazione solidale con la Palestina ha prodotto un risveglio delle coscienze importante, ma il suo contraltare è una polarizzazione delle posizioni: in questa polarizzazione la fetta di popolazione che prova indifferenza, nel migliore dei casi, o consenso, nel peggiore, per azioni squadriste come quelle portate avanti nelle scuole è in aumento, e questo ha indotto la regia ombra degli attacchi a ritenere opportuno l’utilizzo dei fascisti come manovalanza.

La seconda è che questi attacchi vanno letti in un quadro più ampio di qual è il ruolo dei fascisti in questo frangente storico: mentre l’imperialismo occidentale spinge sempre di più sull’acceleratore verso la guerra aperta con Russia e Cina, le classi lavoratrici sono recalcitranti a farsi coinvolgere dalla retorica bellica; certo, dietro ad un’avanguardia che già oggi fa controinformazione e si attiva per sabotare l’industria bellica c’è una maggioranza silenziosa che non partecipa direttamente, ma che ha dimostrato di poter essere coinvolta con le parole d’ordine giuste.

Gli attacchi dei fascisti alle scuole visti sotto questa lente sono anche una palestra per azioni che un domani potrebbe essere necessario per lo Stato condurre contro un picchetto fuori da una fabbrica, nel piazzale di un porto o in una stazione ferroviaria. Quanto più il movimento dei lavoratori renderà difficile la messa a regime dell’economia di guerra, tanto più violenta e fuori dalle regole dello stato borghese sarà la risposta del capitale.

Questo è un problema che colpisce tutta la parte di mondo che fa parte del centro imperialista a guida USA-NATO, che si sta già preparando: la criminalizzazione degli antifascisti, come ad esempio per i fatti di Budapest o per la recente classificazione di organizzazioni Antifa come “terroriste” da parte degli Stati Uniti, è uno strumento di cui la controparte si sta già servendo per costruire il nemico sul fronte interno e attraverso l’azione repressiva sgomberare il campo per permettere ai fascisti di agire indisturbati.

Per quanto in ritardo – al momento non si vede all’interno dei movimenti una consapevolezza diffusa di questa dinamica – il tempo per organizzare una risposta antifascista militante, capace di complementare il confronto dialettico politico con la pratica antifasciste per le strade, ancora c’è. La risposta infatti, come sempre, non può prescindere dalle strade: con i fascisti l’unica soluzione è la violenza di classe.

  1. Per citarne solo qualcuna, oltre alle note Forza Nuova e Casapound, ci sono Lealtà e Azione, Veneto Fronte Skinhead, Do.Ra., ma anche gruppetti informali legati da frequentazioni simili ad esempio in curva, palestre di sport da combattimento o nel giro dei concerti naziskin. ↩︎

Due parole su “contro i re e le loro guerre”

Si è svolta ieri l’assemblea “Contro i re e le loro guerre”, che propone una piattaforma base per iniziare ad organizzare la mobilitazione in questa fase. Dal momento che stando a quanto comunicato un programma vero e proprio verrà definito con una nuova assemblea il 24 e 25 gennaio i commenti saranno limitati a quanto disponibile ad oggi.

Come prima cosa, l’assemblea di ieri segna la fine dell’esperienza della rete “A pieno regime”, nata nell’autunno dello scorso anno per organizzare la mobilitazione contro il ddl 1660 (poi approvato con minime modifiche come decreto legge ad aprile di quest’anno). Anche se di fatto le stesse realtà che costituivano quella rete confluiscono nel nuovo progetto, che quindi va letto in continuità con quel percorso (e infatti anche nel documento uscito dall’assemblea questa continuità viene rivendicata), cambia la parola d’ordine.

La rete “A pieno regime” ed il suo ruolo nel movimento

La rete “A pieno regime” come aggregatore di mobilitazione antirepressivo ha sicuramente prodotto in termini di numeri molto, con il culmine nella manifestazione del dicembre scorso a Roma che, al netto della solita discussione sui numeri, ha sicuramente avuto dimensioni imponenti, con diverse decine di migliaia di persone coinvolte. Il problema principale della rete, e del motivo per il quale non è stata in grado di incidere in nessun modo sul ddl1660 risiedeva in due caratteristiche:

  1. l’approccio emergenziale alla questione, trattata come il tema politico del momento ma senza che questo venisse legato ad una analisi organica della situazione in grado di inserire la lotta contro l’ennesimo decreto sicurezza all’interno di un quadro di mobilitazione più ampio in grado di produrre un incremento del livello di coscienza tra le classi lavoratrici, al contrario di quanto tentato, e in parte riuscito, alla rete “liberi/e di lottare”;
  2. la composizione estremamente eterogenea della rete, che tra le 250 organizzazioni aderenti vedeva soggetti come centri sociali del nord-est e altre organizzazioni “extraparlamentari”, ma anche soggetti istituzionali come Arci, ANPI, segmenti della CGIL e di AVS. È chiaro che organizzazioni diverse non solo per la loro forma, ma anche per la loro composizione – politica, anagrafica e non solo – difficilmente potevano produrre un programma unitario di ampio respiro.

Riassumendo, “A pieno regime” nasce male perché troppo eterogenea, e per non frammentarsi subito affronta la questione repressiva in modo superficiale, limitandosi a porre la repressione come prodotto di un governo fascista a cui opporsi. Non c’è dubbio che il governo Meloni sia figlio del fascismo storico, e che sicuramente in questa fase incarni il fascismo di cui la borghesia ha bisogno per gestire la fase attuale, ma non ci si può dimenticare di quanto abbia fatto negli anni anche il centrosinistra per incrementare il livello di repressione a cui sono sottoposti compagni e compagne in tutta Italia, dai decreti Minniti e Lamorgese ad amministratori locali sceriffo come ad esempio Nardella a Firenze, Sala a Milano, De Luca in Campania e tanti altri.

Dimenticanza che per la rete “A pieno regime” non è casuale, ma è precisamente la chiave che permette a tutte le organizzazioni della sinistra istituzionale – di partito e non – di rifarsi una verginità unendosi nella “grande lotta contro il fascismo”. Si tratta in altre parole di un contenitore utile a tenere la mobilitazione su un piano moderato, con lo scopo di presentare il voto come unico modo per fermare la deriva autoritaria e lo stato di polizia e garantire ai suoi azionisti di maggioranza un ritorno elettorale.

Cosa rappresenta “Contro i re e le loro guerre”

Intanto, il nome: “Contro i re e le loro guerre” prende spunto dal movimento “No Kings”, nato nei mesi scorsi negli USA per protestare contro le politiche sempre più autoritarie di Donald Trump e che hanno portato il mese scorso a manifestazioni oceaniche, con numeri che gli Stati Uniti non vedevano dai tempi delle proteste contro la guerra in Vietnam. Per un resoconto più dettagliato della natura e composizione delle proteste, qui il lavoro di CrimethInc.

“Contro i re e le loro guerre” nasce quindi cercando di importare il livello simbolico dall’estero, che è già un errore di per sé in quanto viene meno l’analisi reale della situazione reale che il marxismo-leninismo ci insegna essere imprescindibile ogni volta che ci si pone l’obiettivo di sviluppare un programma politico.

Inoltre, pur indicando una serie di problematiche concrete che oggi il proletariato si trova ad affrontare (carovita, crisi climatica, economia di guerra), il manifesto conclusivo non riesce – pur ponendo la questione dei rapporti di forza – a formulare l’obiettivo di smantellare il sistema economico che produce le problematiche elencate: il rischio è che questo serva a preparare lo sbocco elettorale alle figure politiche che attraverseranno gli appuntamenti di mobilitazione di questa assemblea.

Come nota ulteriore, è un errore di impostazione enorme mettere insieme, come fatto nel manifesto, figure come quelle di Netanyahu, Trump e Meloni con Putin, Xi Jinping e Modi: non è questione se i secondi siano “re” o meno, quanto il fatto che quelli non sono i nostri nemici. Se l’obiettivo è distruggere il sistema economico capitalista che produce le condizioni di vita attuali di milioni di lavoratori e lavoratrici, il nemico sta in casa nostra ed ha la forma dei “re” e dei loro alleati che si trovano qui da noi, nel centro imperialista. Un passaggio come questo in cui si fa di tutta l’erba un fascio non fa altro che riprodurre per l’ennesima volta il cliché della condanna degli “opposti estremismi”, che è utile solo a riportare le voci di dissenso a un livello di compatibilità con la democrazia borghese.

Se a questo aggiungiamo che questa assemblea si pone come proseguimento naturale dell’esperienza di “A pieno regime”, dobbiamo aggiungere che è cambiato e di molto il contesto che la circonda: non più un panorama fatto di piccoli collettivi che resistono e poche organizzazioni nazionali in perenne lotta per l’egemonia tra di loro, ma un mondo in cui le piazze imponenti per la Palestina dei mesi scorsi e le giornate già previste per il 28-29 novembre hanno permesso al movimento di aumentare la sua riconoscibilità tra la popolazione, ma soprattutto hanno prodotto un livello di consapevolezza diverso tra lavoratori e lavoratrici rispetto alla loro forza collettiva ed alla loro capacità di essere potenzialmente incisivi a livello politico senza necessariamente doversi porre la questione della rappresentanza.

Per questo probabilmente “Contro i re e le loro guerre” è un rischio maggiore per i suoi azionisti istituzionali (AVS, Arci, ecc.), ma proprio per questo è per loro necessario: per non perdere una fetta del consenso su cui si basano le loro strutture, queste organizzazioni dovranno necessariamente trovare un nuovo equilibrio tra una base più radicale di quanto non lo fosse anche solo 3 mesi fa e le loro responsabilità di garanti dell’ordine e della minimizzazione del conflitto sociale. L’auspicio è che questa contraddizione non venga riassorbita e che si produca un effettivo spostamento a sinistra tra le classi lavoratrici, da favorire con la costruzione di un vero programma politico dal basso che ne indirizzi le necessità.

Rimandando per ora un giudizio più completo a dopo la pubblicazione del programma che emergerà dall’assemblea del 24-25 gennaio, l’invito a movimenti, collettivi, realtà sociali è di non aderire a “Contro i re e le loro guerre” per non cadere nell’ennesima trappola costruita dalla sinistra istituzionale per soffocare sul nascere qualasiasi movimento rivendicativo che metta in dubbio il capitalismo e lo stato borghese che ne è garante.


Mamdani, la metropoli e una lezione per noi

Mamdani il socialista?

Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: la vittoria di Zohran Mamdani alle elezioni per il sindaco di New York non è la vittoria del socialismo, come ha starnazzato la destra di qua e di là dall’oceano Atlantico.

Per chi conosce il mondo politico degli Stati Uniti, non è nemmeno sorprendente che un candidato considerato alla stregua di una reincarnazione di Lenin sia in realtà perfettamente allineato alla linea politica dell’impero quando si tratta di guardare al giardino di casa, come già visto per personaggi come Bernie Sanders o Alexandria Ocasio-Cortez, i due esponenti più famosi di quei “socialisti democratici” che rappresentano di fatto lo schieramento più a “sinistra” dell’arco politico parlamentare statunitense.

Mamdani ha vinto le elezioni con un programma sicuramente di rottura, teso interamente ad affrontare la tematica del costo della vita, che da centrale in tutto il mondo occidentale diventa questione di vita e di morte a New York, il centro del centro imperialista. Ma se questa rottura è rappresentata solo da un leggero incremento della redistribuzione della ricchezza, fatto di blocco degli aumenti degli affitti, sostegno alimentare e mezzi pubblici gratuiti – tutte iniziative lodevoli, sia chiaro, e che sarebbe bello vedere anche nelle nostre città – senza mettere in discussione la struttura economica che ha prodotto queste storture, possiamo veramente parlare di rottura?

Mamdani il “pompiere”

Vista più da vicino, l’operazione Mamdani non è poi dissimile da quanto succede in Italia quando le forze della “sinistra”, parlamentare e non (PD e CGIL su tutte), sfruttano la potenza del loro apparato per mettersi alla testa di fenomeni, grandi o piccoli, che esprimono esigenze di rottura con l’ordine della democrazia borghese con il solo scopo di ricondurli all’ovile; l’esempio più recente ovviamente è dato dal tardivo accodarsi della CGIL allo sciopero generale per la Palestina del 3 ottobre, una convocazione arrivata unicamente per togliere al sindacalismo di base la paternità della data e far rientrare la mobilitazione massiccia sviluppatasi in quelle settimane su di un binario di compatibilità democratica, in cui la fine del genocidio si accompagnava inevitabilmente alla condanna di Hamas, alla soluzione dei due Stati e al diritto internazionale, tutte questioni evidentemente superate dalla Storia. Tentativo riuscito in solo in parte, perché se è pur vero che le parole d’ordine inoffensive della CGIL hanno offerto al governo una via d’uscita facile a livello mediatico, le masse scese in piazza in quei giorni hanno espresso concretamente una piattaforma ben più radicale.

Il filo conduttore che lega le elezioni per un sindaco a migliaia di km da qui e uno sciopero generale internazionalista è la volontà da parte della “sinistra” istituzionale di rappresentare l’inevitabilità del capitalismo, di affermare che questo sistema non può essere superato e che dando loro il voto si potrà perlomeno riformarlo. In altre parole, il ruolo del pompiere.

E proprio perché la figura di Mamdani ricopre quella funzione pacificatrice dei conflitti di classe il PD e i suoi alleati ne hanno esaltato la vittoria, innalzandolo ad esempio per una nuova riscossa, perchè in Italia, in fondo, c’è sempre una campagna elettorale da fare.

Che lezione trarre dalle elezioni di New York

L’analisi del voto per il sindaco di New York parla chiaro: Mamdani ha vinto soprattutto nei quartieri popolari, tra i lavoratori, gli immigrati e le minoranze; se una parte di questo voto può essere “associativo” – dopotutto Mamdani stesso è un immigrato appartenente ad una minoranza – è innegabile come la vittoria sia dovuta alle parole d’ordine della sua campagna.

New York è forse la metropoli per eccellenza, il centro primario dell’accumulazione del capitale, e come tale è il luogo al mondo dove è più spinta l’estrazione di valore, che produce lavoro povero, gentrificazione, espulsione di poveri e minoranze dalla città, speculazione immobiliare ecc.

Su scala minore in senso assoluto ma forse non in termini relativi, questi fenomeni sono replicati anche nelle grandi città italiane, in cui a partire dalla crisi del 2008 il grande capitale italiano ha dato un’accelerazione devastante ai processi di messa a valore dello spazio fisico delle città. Questo meccanismo è forse più evidente, e incide di più, nelle grandi città del nord, dove l’espulsione delle fasce più povere di popolazione verso le periferie è avvenuta a suon di “riqualificazioni” di vecchie aree industriali – Milano soprattutto, con la speculazione immobiliare ormai completamente fuori controllo, ma anche Torino o Genova – e nelle cosiddette “città d’arte” come Venezia, Roma e Firenze, in cui la domanda di alloggi turistici ha prodotto l’effetto di desertificare i centri storici e poi a cascata le zone limitrofe, rendendo ormai impossibile ai lavoratori del settore (spesso in nero e con salari generalmente bassi) di potersi permettere un affitto.

E se la situazione abitativa è pessima, non va meglio al resto: è di oggi la notizia che dal 2021 i prezzi degli alimenti sono saliti del 25%, mentre i salari reali sono calati del 7,5%.

In sintesi, i problemi che hanno portato Mamdani a diventare sindaco di New York sono reali, oltreoceano come nelle città italiane.

E nel caso delle città italiane il responsabile è quasi sempre il Partito Democratico, che le grandi città le ha governate quasi tutte negli ultimi anni, proponendo sempre e solo un modello fatto di valorizzazione della rendita immobiliare, di turismo e del lavoro povero che esso genera e di repressione violenta di tutte le forme di incompatibilità con l’ordine borghese della metropoli1, a suon di sgomberi, Daspo urbani e sfratti.

Parole d’ordine chiare per un programma chiaro

Se le parole d’ordine sono chiare, è di vitale importanza impedire alla sinistra elettorale, a cui l’ipocrisia di certo non manca, di farle sue per scopi di campagna elettorale: vale per il PD come per quelle forze che a parole si presentano come diverse salvo poi correre in coalizione.

Per impedirlo è fondamentale che il movimento di massa nato con gli scioperi solidali con la Palestina – e che è atteso alla prova del nove a fine mese – costruisca un suo programma politico che metta al centro le necessità delle classi lavoratrici, coniugandole con la solidarietà internazionalista e l’opposizione alle guerre imperialiste di USA e NATO.

Si parla di programma politico, ma non di elezioni: lo scopo non deve essere quello di mettere un rappresentante in qualche consiglio comunale o in parlamento a fare compagnia ai soprammobili, ma di far fruttare le enormi energie che abbiamo visto essere presenti nella classe operaia nelle scorse settimane per imporre al dibattito pubblico questo programma, per rendere i bisogni di lavoratori e lavoratrici l’obiettivo delle lotte che vengono condotte e per sviluppare ulteriormente il programma, in un ciclo continuo tra elaborazione teorica ed azione politica che deve risvegliare la coscienza di classe sopita e preparare la spallata al sistema capitalista.

  1. Termine qui usato un po’ largamente, ma ci siamo capiti ↩︎

Un contributo dai Paesi Baschi

I Paesi Baschi costituiscono sicuramente un esempio di lotta all’interno del movimento rivoluzionario occidentale. La lotta portata avanti fin dagli anni ’30 per costruire una Repubblica indipendente Basca, proseguita attraverso gli anni del franchismo ed arrivata fino ai nostri giorni, con i suoi alti e bassi e con i suoi limiti e contraddizioni, continua a porre interrogativi determinanti per tutti i comunisti del centro imperialista.

Come detto nella presentazione di questo spazio, l’obiettivo è di fornire strumenti utili a tutti coloro che si organizzano per la costruzione di una prospettiva rivoluzionaria e di superamento del capitalismo, e per questo la circolazione delle idee deve essere valorizzata il più possibile.

Da pochi giorni i compagni di Bultza EHM-L hanno pubblicato un documento programmatico per la costruzione di un Partito Comunista Marxista-Leninista in Euskal Herria; si tratta di un documento denso, ma molto interessante, che contiene spunti importanti e da tenere in considerazione anche al di fuori del contesto specifico del Paese Basco. Per questo motivo ho scelto di rendere disponibile qui sotto la traduzione integrale del documento, il cui originale è consultabile qui in spagnolo, e qui in euskara.

Gavroche

Programma politico e di iniziativa “Euskal Herriko Marxista-Leninista”

All’interno di Bultza Herri Ekimena, dopo mesi di analisi della congiuntura politica, tanto nazionale in Euskal Herria, quanto internazionale, e in seguito ad un intenso dibattito ed all’approvazione di una assemblea straordinaria, siamo giunti a delle conclusioni che da ora costituiscono la nostra linea politica e determinano la nostra prassi e i nostri compiti a corto e medio termine.

Tra i principali compiti vi è la necessità imperativa di creare l’organizzazione marxista-leninista del Paese Basco con l’obiettivo di raggruppare le forze comuniste e rivoluzionarie, e il cui futuro sviluppo conduca alla nascita del Partito Comunista ML di Euskal Herria (EH). Crediamo che questo sia lo strumento fondamentale per incidere all’interno del movimento popolare basco, e principalmente nella sua classe operaia, e dirigerlo verso una direzione rivoluzionaria, per il raggiungimento del socialismo e la liberazione nazionale.

Questo compito però non riguarda solo la nostra organizzazione, ma è un progetto comune in cui chiamiamo a partecipare tutte le persone e le organizzazioni che ritengono necessaria la sua creazione, anche se per questo dobbiamo essere tutti disposti ad armarci di disciplina, pazienza, perseveranza e a sacrificare, tra le altre cose, l’ego, l’attaccamento alle sigle e a certe comodità della militanza all’interno di circoli di fiducia e affinità personale, a favore di una unità programmatica e di azione necessaria per la causa per la quale lottiamo. Contribuiamo con questo documento programmatico con l’intenzione di servire da stimolo, punto di partenza o base per il dibattito sul progetto e che nel frattempo assumiamo come linea politica della nostra organizzazione.

È una chiamata a rialzarsi e ricominciare la battaglia, approfittando di tutta l’esperienza accumulata come popolo e come classe, assumendoci gli errori con critia e autocritica e guidati da una linea politica che possa contare sulle armi ideologiche che solo l’analisi e la prassi marxista-leninista possono dare.

Il contesto politico nazionale

Sono momenti duri e difficili per il Paese Basco, per la lotta di liberazione nazionale e sociale e per i comunisti a causa della sconfitta subita dal Movimento di Liberazione Nazionale Basco in seguito al tradimento da parte della “Izquierda Abertzale Ufficiale” e alla fine e al cambio di ciclo storico nazionale. Il tradimento politico, ideologico e morale che ha significato la capitolazione della lotta in cambio di briciole e riforme e l’entrata nel gioco della spartizione della torta nel parlamento spagnolo, posizionandosi così sullo schieramento di sinistra, socialdemocratico dello Stato Spagnolo e dell’autonomismo, facendo credere al popolo che l’opzione che rappresentavano era inevitabile e l’unica fattibile.

Questo ha lasciato una sensazione di sconfitta, di stanchezza e un entusiasmo rivoluzionario basso in gran parte della classe lavoratrice basca, compresi i suoi membri più rivoluzionari ed attivi, ovvero coloro che hanno evitato il crollo totale del movimento.

E in effetti, dopo la caduta del Movimento di Liberazione Nazionale Basco, si è prodotto un processo di rottura ed atomizzazione. Una rottura che vede da una parte la linea della capitolazione della Izquierda Abertzale Ufficiale e delle organizzazioni che, pur essendone uscite organicamente e criticandone alcuni aspetti, continuano a subirne l’influenza, in un modo o nell’altro; e dall’altra parte le organizzazioni che rompono totalmente con questa linea, insieme a quelle nate durante questo processo di atomizzazione, e alle persone che se ne sono distaccate; tutte queste organizzazioni ed individualità tengolo alta la bandiera della resistenza e della dignità di questo popolo. È ai marxisti-leninisti di questi settori, insieme alla classe operaia combattiva ed alla gioventù rivoluzionaria, che dirigiamo questo appello.

Il contesto internazionale e la situazione del Paese Basco in questo contesto

È molto importante saper analizzare correttamente il contesto internazionale e definire i cambiamenti e le evoluzioni che il mondo e l’imperialismo hanno attraversato. Senza “un’analisi concreta della realtà concreta” sarebbe difficile caratterizzare correttamente quali paesi sono imperialisti e quali no, per esempio, o qual è la visione internazionale e le azioni che un’organizzazione comunista deve intraprendere, che dipendono non solo dal fatto che questa lotta si sviluppi in una nazione oppressa, una colonia o in un paese oppressore, ma anche se queste lotte si trovino nel centro imperialista o alla sua periferia, ecc.

Per questo crediamo sia necessario comprendere, ad esempio, le tesi del sistema-mondo, dello sviluppo e dello scambio inuguale tra il centro imperialista, la semiperiferia e la periferia, ovvero tra il nord ed il sud globale, sviluppate tra gli altri da Samir Amin, Arghiri Emmanuel o Torkil Lauesen, che non sono altro che una attualizzazione delle tesi leniniste sull’imperialismo aggiornate alla situazione dello stesso un secolo dopo.

Da questo discendono tanti errori di organizzazioni comuniste che, ad esempio, caratterizzano Russia e Cina come imperialiste o le loro azioni e guerre difensive come conflitti interimperialisti, dando credito a tesi revisioniste come quella della “piramide imperialista” del KKE, che neghiamo e combattiamo.

Riteniamo necessario questo lavoro di comprensione anche per poter analizzare correttamente fenomeni come quello dei BRICS che, pur non avendo una connotazione socialista, generano un cambio di tendenza verso la multipolarità che produce opzioni di sviluppo per la sovranità nel sud globale e un indebolimento e una crepa nell’imperialismo di cui si può approfittare per attaccarlo su più fronti.

La contraddizione principale ad oggi la poniamo tra l’imperialismo ed i popoli da esso dominati, senza abbandonare la lotta tra proletariato e borghesia in ogni nazione all’interno della contraddizione capitale-lavoro, e la lotta contro il fascismo che questa genera.

In questo senso l’analisi che facciamo sul Paese Basco è quella di una nazione oppressa dagli Stati imperialisti Spagnolo e Francese. Però a sua volta è una nazione del centro imperialista e pertanto contiene la contraddizione inerente a questa condizione di avere, come diceva Engels, due nazioni all’interno di ciascuna nazione, quella borghese e quella proletaria, e questa nazione borghese basca, questa borghesia basca è a sua volta oppressore del proletariato basco e delle nazioni del sud globale attraverso la legge dello scambio inuguale, in modo diretto o tramite gli Stati Spagnolo e Francese. Anche il popolo lavoratore basco in modo indiretto beneficia di questo plusvalore rubato altrove, costituendo al suo interno un’aristocrazia operaia, alienata e conformista. Il popolo lavoratore basco guidato dal proletariato e dal suo partito, il futuro partito comunista M-L, deve lottare contro entrambe le contraddizioni, e dichiarare inseparabile la lotta di liberazione nazionale e sociale del suo lavoro antimperialista.

Caratterizzazione degli stati e questione nazionale

Caratterizziamo lo Stato Francese come borghese ed imperialista, occupante di colonie e nazioni oppresse e sfruttatore di neocolonie che, pur avendo raggiunto l’indipendenza formale, continuano a dipenderne, nonostante molte di queste ora iniziano a rompere i rapporti e a conseguire una seconda indipendenza reale, come si vede ad esempio nel Sahel.

Caratterizziamo lo Stato Spagnolo come borghese ed imperialista, occupante di nazioni oppresse e colonie, con uno Stato che dopo 40 anni di fascismo e la falsa transizione, non ha rotto con il regime e ne ha mantenuto le strutture principali, quella giudiziara, le forze poliziesche di repressione, l’esercito, l’intelligence, la chiesa… senza alcuna epurazione, solo un cambio di nome o di facciata e le cariche sono rimaste occupate dagli stessi. Pertanto anche se non viviamo sotto una dittatura o un regime fascista, caratterizziamo come fasciste quelle strutture dello Stato, nonostante la democrazia borghese preveda altre istituzioni come il parlamento con le sue elezioni o certi tipi di libertà politiche, sociali o sindacali strappate al Regime con la lotta operaia e popolare durante la sua ristrutturazione.

Prove di questo sono l’uso sistematico del terrorismo di stato (GAL, BVE..)1 o la tortura, i tribunali speciali o (TOP, AN)2 o l’esistenza continua di prigionieri politici dal ’39 ad oggi. Riguardo ai prigionieri politici la nostra posizione è e sarà quella dell’amnistia totale, e lotteremo per renderla realtà.

Rispetto alle democrazie borghesi del centro imperialista o della semiperiferia crediamo che molte portino in sé un processo di fascistizzazione, definendo il fascismo non solo come lo definì Dimitrov alle sue origini – come dittatura terrorista degli elementi più reazionari, sciovinisti ed imperialisti del capitale finanziario – ma anche come la controrivoluzione permanente schierata dal capitaliasmo nella sua fase imperialista matura e agonizzante. Ovvero, definiamo il fascismo non solo come un tipo di Regime o una ideologia, ma anche come la fase e lo strumento usato da molti stati borghesi imperialisti per condurre la lotta di classe.

Questo implicitamente contiene una serie di caratteristiche, e poiché non possiamo nemmeno cadere nell’errore di chiamare fascista qualsiasi Regime, Stato o partito reazionario, è necessaria la visione dialettica della “analisi concreta di ogni realtà concreta”.

In questo senso proponiamo una lotta antifascista coerente con questa definizione lontana tanto da chi vede il fascismo solo in partiti o gruppi di “estrema destra” quanto da coloro che lo vedono ovunque e lo usano per squalificare tutto ciò che non rientra nella loro visione piccolo borghese.

Crediamo che anche nel Paese Basco il razzismo e i nuovi gruppi fascisti – alcuni spinti da “identitarismo basco” – che stanno iniziando ad alzare la testa debbano essere troncati alla radice.

Quanto alla definizione di nazione e alle sue differenze con i popoli o le regioni, si tratta di un dibattito ampio e complesso, anche all’interno del marxismo-leninismo, troppo per poterlo affrontare in questo testo; tuttavia naturalmente difendiamo il principio leninista del diritto all’autodeterminazione delle nazioni oppresse, inclusa la loro indipendenza e separazione totale dal suo oppressore e lottiamo per questo fino alla costituzione della Repubblica Socialista Basca. Ugualmente difendiamo il diritto del resto delle colonie e nazioni oppresse, tanto dagli Stati Spagnolo e Francese – Galizia, Catalogna, Canarie, Corsica, Bretagna – quanto nel resto del mondo.

Quadro di attuazione e soggetto politico

Per quanto esposto fin qui definiamo Euskal Herria, le sue sette Herrialdes, come ambito nazionale autonomo per lo sviluppo della lotta di classe e il popolo lavoratore basco come soggetto politico rivoluzionario. Concetto che, come diceva Argala, intende come lavoratore basco qualsiasi persona, indipendentemente dalla sua origine, genere, etnia, ecc. che vive e lavora in EH. Capiamo l’importanza dell’obiettivo di aggregare alla lotta e all’organizzazione la classe operaia migrante, che nella maggior parte dei casi svolge i lavori con più alto sfruttamento e le peggiori condizioni di vita. Concetto, quello di popolo lavoratore basco, che comprende la somma della classe operaia insieme ai settori popolari della piccola borghesia, contadini, pescatori, artigiani, lavoratori autonomi… Settori che molte volte vivono situazioni economiche dei salariati dell’aristocrazia operaia, che godono di alti stipendi e qualità della vita. Inoltre contadini e pescatori appartengono ad un settore primordiale come quello primario e in più hanno un peso importante a livello culturale ed identitario nazionale.

Diamo un’importanza vitale alla lotta delle donne lavoratrici per l’emancipazione dalla doppia oppressione come lavoratrice e come donna causata dal carattere patriarcale mantenuto strutturalmente dal capitalismo.

Escludiamo dal popolo lavoratore basco la borghesia basca, anche se nazionalista, le forze della repressione, i funzionari con ruoli di oppressione sociale o nazionale e i fascisti, anche se operai.

Di fronte a loro si posizionerà il proletariato basco, poiché crediamo che gli insegnamenti del marxismo su questa classe siano ancora validi, che più organizzato e unito e senza nulla da perdere guiderà e dirigerà la lotta rivoluzionaria attraverso il Partito Comunista.

Come diceva Argala, “ciò che condividiamo con gli operai di Spagna o Francia non è l’appartenenza alla stessa nazione, ma quella alla stessa classe sociale”. E come diceva Txabi Etxebarrieta, “la situazione di oppressione nazionale e sociale crea una classe operaia dotata di una coscienza nazionale di classe”.

Non ci interessa una indipendenza nella quale ci liberiamo dalla Spagna e dalla Francia ma non dallo sfruttamento capitalistico. E nemmeno capiamo una rivoluzione sociale che ci liberi dal capitale senza che possiamo essere liberi come nazione. È una lotta simultanea e dialettica. Prima del nazionalismo basco borghese o del socialismo statalista, rappresentiamo il patriottismo rivoluzionario internazionalista e antimperialista basco. Riteniamo la lotta rivoluzionaria basca come parte della lotta rivoluzionaria internazionale per il socialismo e la liberazione nazionale dei popoli di tutto il mondo.

Pertanto la possibilità di una unione futura con altri popoli si potrà realizzare con Repubbliche ugualmente socialiste o popolari in forma di confederazione o di federazione. Fuggiamo dal repubblicanismo socialista statalista che offusca ogni nazione formano una unica Repubblica-Stato-Nazione Spagnola o Francese.

Il dibattito storico all’interno del movimento comunista internazionale e la lotta contro il revisionismo in tutte le sue forme

Proponiamo una definizione ed una demarcazione chiara riguardo la “lotta di linee o posizioni all’interno del Marxismo” in cui non abbia spazio né il nazionalismo sciovinista piccolo borghese né il falso socialismo postmoderno o indefinito. Ci definiamo comunisti e in quanto tali pratichiamo una difesa ferrea delle posizioni Marxiste-Leniniste basate sul materialismo dialettico e storico, e di lotta contro il riformismo, l’opportunismo e il revisionismo in tutte le sue forme. Difendiamo la validità delle teorie di Marx, Engels e Lenin.

Difendiamo la corretta applicazione delle stesse da parte di Stalin e dell’URSS fino al 1956 e difendiamo le esperienze del socialismo reale sviluppate in tutto il mondo fino alla loro caduta o al loro passaggio al revisionismo.

Allo stesso modo difendiamo le teorie leniniste sulla combinazione della lotta anticoloniale ed antimperialista con la rivoluzione socialista fino a trasformare l’una nell’altra, come in Vietnam, Cina, Corea…

Ugualmente difendiamo le teorie di trasformazione della guerra civile antifascista in rivoluzione socialista come avvenuto in Albania.

Rivendichiamo le figure, con i loro successi ed i loro errori, di comunisti come Ho Chi Minh, Enver Hoxha, Dimitrov, Che Guevara… o quelle di rivoluzionari antimperialisti come Thomas Sankara, Amilcar Cabral…

Crediamo che del blocco socialista rimanga in piedi soltanto la RPD di Corea, con tutti i suoi “però” e le sue peculiarità. Non possiamo identificare Cuba, Cina o Vietnam come paesi socialisti così come li intendiamo nel marxismo-leninismo a causa della loro economia mista e del revisionismo dei suoi partiti dirigenti, ma mantengono comunque certe posizioni o strutture socialiste che fanno in modo che non siano nemmeno paesi capitalisti tradizionali. Idem per la Bielorussia. Pertanto dobbiamo agire dialetticamente nei loro confronti e mentre ne critichiamo certi errori o processi, li difendiamo davanti all’imperialismo, come per i processi popolari di Venezuela o Nicaragua.

Non possiamo dilungarci rispetto ad errori di Mao od Hoxha per esempio, né nelle lezioni ricavate da tutti questi processi.

Condanniamo tutti i processi di frammentazione come il XX congresso del PCUS o la quarta internazionale. Combattiamo il Trockismo, l’Eurocomunismo, il “marxismo occidentale” il “rossobrunismo”, il postmodernismo o tendenze e figure come quella di Negri, la scuola di Francoforte, ecc.

Allo stesso modo critichiamo un certo dogmatismo Maoista (M-L-M) o “Hoxhista”.

Come per altre sezioni è molto difficile condensare tutto ciò che sarebbe possibile elaborare in merito qui, però crediamo che sia sufficiente per fare vedere chiaramente il quadro teorico in cui si posiziona questo progetto.

Esperienze M-L in EH. Cosa rivendichiamo?

È necessario analizzare quali processi, organizzazioni o progetti comunisti debbano essere rivendicato o riscoperti.

Per prima cosa constatiamo che attualmente non esiste alcuna organizzazione o partito m-l a livello di tutto il Paese Basco, perchè altrimenti questo progetto non avrebbe senso, qui non si tratta di contribuire all’atomizzazione, né alla creazione di piccoli spazi per questioni di incompatibilità personali o di ego, né di ampliare la “zuppa di sigle” già esistente. Crediamo che le organizzazioni comuniste esistenti in EH o sono piccole organizzazioni di carattere locale, come la nostra, alle quali estendiamo un invito al dibattito e al progetto, o hanno un carattere statale e un quadro di azione statale e non sono marxiste-leniniste.

Tutto questo con il rispetto per quelle organizzazioni comuniste con carattere Statale e con alle spalle anni di lotte e repressione, e con il rispetto e la fraternità con organizzazioni basche che pur non essendo M-L fanno un buon lavoro antirepressivo, popolare, antimperialista, antifascista o indipendentista. Con tutte queste organizzazioni speriamo di continuare ad unire le forze e collaborare.

Quanto all’esperienza storica, sì, crediamo che ci siano esperienze ed organizzazioni e pocessi dei quali rivendicarsi continuatori. La prima, da cui partiamo, è la Federazione Comunista Basco-Navarra dei primi anni ’30, dissolta con la creazione del PC di Euskadi nel 1935. Crediamo che questa organizzazione raccolse correttamente i fondamenti del marxismo-leninismo e le indicazioni dell’Internazionale Comunista nella famosta lettera di Manuilsky che indicava ai compagni baschi “l’obiettivo del Partito Comunista deve essere quello di creare sulle rovine dello Stato Spagnolo la libera federazione iberica delle repubbliche operaie e contadine di Catalogna, Paese Basco, Spagna, Galizia e Portogallo”. Assumiamo la loro linea indicata nel documento piattaforma del 1933 che iniziava così: “La federazione comunista di Euskadi, (…) invita le masse popolari basche a lottare rivoluzionariamente contro il potere imperialista spagnolo ed i suoi agenti infiltrati nel movimento nazionalista basco, che servono gli interessi dei capitalisti baschi alleati del potere imperialista della Spagna, con la seguente piattaforma rivoluzionaria di lotta per la vera liberazione di Euskadi”.

Rivendichiamo ugualmente i comunisti ed i rivoluzionari che diedero originie ed hanno partecipato al Movimento di Liberazione Nazionale Basco fino alla fine. Figure come i fratelli Etxebarrieta o Argala, che diedero vita ai dibattiti della V assemblea e quello che fecero per identificar il soggetto politico, il quadro nazionale di azione, le strategie, ecc.

Inoltre, una menzione per i tentativi di riunificazione comunista all’interno del MLNB, l’ultimo dei quali portato avanti da EHK. Consideriamo molto prezioso il loro completissimo archivio documentale, dal quale ci nutriamo spesso per la nostra formazione ed il nostro studio.

Allo stesso modo rivendichiamo i comunisti baschi che hanno dato la loro libertà e la loro vita all’interno di organizzazioni statali come Kepa Crespo o Martin Eizaguirre (PCE(r)), ecc.

Sono molti i nomi di eroici comunisti e gudari3 nella nostra storia e fino ai nostri giorni che potremmo nominare e dei quali ci consideriamo continuatori.

Raccogliamo ugualmente la lunga storia e tradizione di lotta nazionale per la nostra sovranità ed indipendenza nazionale da battaglie come quella di Orreaga nel 778 fino ai nostri giorni.

Pensiamo anche che manchi un forte e valido processo di critica e di autocritica verso tutti gli errori commessi in tutti questi processi storici che abbiamo menzionato e rivendicato, ovvero che rivendichiamo ma che critichiamo per i loro errori o per come sono terminati, al fine di non commetterli nuovamente, mantenendo un processo di verifica della linea e del cammino corretto da seguire.

Lotta operaia

Euskal Herria ha una forte tradizione storica di lotta e coscienza operaia. A causa della sua forte industrializzazione ha sempre avuto un proletariato numeroso e combattivo.

Come esempio portiamo gli scioperi del 1890, 1903, 1917 o lo sciopero dei minatori del 1962 che diede il via a più di 600 scioperi nel Paese Basco Meridionale in quel decennio. Lotte forti e costanti in settori proletari importanti come quello minerario o siderurgico, lotte attraverso gli anni alla Altos Hornos de Vizcaya o all’Euskalduna, battaglie arrivate fino agli anni ’90, fine di un ciclo storico di lotte operaie tanto in E.H. Quanto a livello mondiale, con il cambio di epoca seguente alla caduta del blocco socialista, l’evoluzione del capitalismo alla sua fase neoliberale e la sconfitta per la classe operaia che questo passaggio ha significato, e che dura fino ai giorni nostri.

Tutto questo movimento operaio di Euskal Herria è ciò che bisogna mettere in piedi, dando per assodato che come abbiamo detto viviamo in una nazione senza Stato del centro imperialista e che tanto la borghesia quanto una parte importante della classe operaia gode di un tenore di vita dovuto all’estrazione di plusvalore dal sud globale. Questo crea una aristocrazia operaia con salari alti, grazie ai quali è stata comprata la loro passività, soprattutto quella delle burocrazie sindacali, e crea alienazione e conformismo nella maggioranza dei lavoratori, il che rende difficile i tentativi di radicalizzarne le idee o stimolarne l’appoggio alle cause rivoluzionarie. Senza capire che questa è la realtà potremmo cadere facilmente in una frustrazione sterile o in deviazioni “di sinistra” o sindacaliste/improntate ai diritti.

Rimane tuttavia una coscienza operaia o quantomeno sindacale, vedendo come più del 50% degli scioperi dell’intero Stato Spagnolo oggi siano convocati in questa piccola nazione.

È ugualmente necessatrio tenere conto di due processi. Uno quello di deindustrializzazione avviato negli anni ’80, che ha smantellato il tessuto industriale e con quello il proletariato manifatturiero e minerario e trasformandolo nel settore dei servizi, con i cambiamenti a livello di coscienza di classe che questo comporta. Il secondo processo parte con la crisi del 2008, nel quale una gran parte del piccolo commercio si è visto rovinato e ha chiuso, finendo tra i salariati. Ovvero da una parte è diminuito il peso del proletariato produttivo, essendo stato delocalizzato nelle periferie globali, mentre dall’altro è cresciuta la classe lavoratrice salariata perché una parte della piccola borghesia commerciante vi è stata trascinata dentro.

Tattica, strategia e obiettivi

Il nostro obiettivo come organizzazione comunista è quello della rivoluzione socialista, della presa del potere da parte della classe lavoratrice, l’imposizione alla borghesia della dittatura del proletariato e, tramite la democrazia popolare, garantire una Repubblica Socialista Basca riunificata e di lingua basca. La nostra strategia è di accumulare le forze mediante la creazione del Partito Comunista di tipo Leninista, e di quadri rivoluzionari che organizzino il proletariato ed i settori popolari. Questo si organizzerà mediante il centralismo democratico. Non crediamo nella formula menscevica, trockista o socialdemocratica del partito di massa.

Crediamo che sia di importanza strategica la formazione teorica di questi quadri e la sua dimostrazione rivoluzionaria nella prassi. Senza teoria rivoluzionaria non c’è pratica rivoluzionaria, senza una linea politica corretta non ci può essere una prassi corretta. Non vogliamo cadere nell’attivismo sterile o nello spontaneismo innocuo. Per questo è vitale l’elaborazione di un programma politico che includa tanto il programma minimo per l’unità popolare rivoluzionaria e l’indipendenza nazionale, quanto il programma socialista per la presa del potere e la costruzione del socialismo. L’obiettivo immediato è quello di scuotere la società, rompere la sua alienazione e politicizzare ed organizzare le masse lavoratrici con l’esempio.

Come metodi di lotti adotteremo tutti quelli che riteniamo necessari ed utili per raggiungere gli obiettivi politici.

Come detto viviamo nel centro imperialista, pertanto crediamo che la possibilità di una rivoluzione socialista o i processi di liberazione nazionale siano più probabili nella periferia o nella semiperiferia, ma sarebbe assurdo cadere nel disfattismo per cui qui non ci sia nulla da fare a parte aspettare che scoppi la rivoluzione altrove. Qui dobbiamo lottare dal ventre dell’imperialismo per sconfiggerlo, per sconfiggere gli stati nostri oppressori. È pertanto una questione strategica la distruzione degli stati imperialisti spagnolo e francese, così come del resto delle istituzioni imperialiste alle quali siamo sottomessi, come UE e NATO, e combatteremo questa battaglia insieme alla classe operaia dei popoli da loro sottomessi.

Non subordiniamo la nostra lotta al trionfo della rivoluzione negli Stati Spagnolo o Francese, ma seguendo gli insegnamenti leninisti dello sviluppo inuguale delle nazioni e della loro coscienza, la rivoluzione comincerà nei suoi (dell’imperialismo, ndt) punti più deboli e la lotta condotta in Euskal Herria per decenni, così come la sua coscienza nazionale di classe lo rende uno dei punti deboli dell’imperialismo spagnolo, francese ed europeo.

Siamo tuttavia coscienti che non ci permetteranno di condurre con le buone la lotta per il socialismo, e nemmeno in forma legale quella per l’indipendenza mediante il diritto all’autodeterminazione, come ben dimostrato dal “processo Catalano”. Sarà una rivoluzione vittoriosa e il crollo delle istituzioni sovranazionali a renderlo possibile. Per questo è importante stabilire relazioni internazionaliste con organizzazioni e partiti rivoluzionari nel mondo, soprattutto coloro con i quali abbiamo obiettivi di lotta comune contro la NATO, l’UE o gli Stati Spagnolo e Francese.

Sulle questioni tattiche, proponiamo per esempio il recupero delle Batzarres come forma di assemblea popolare o soviet baschi e come rappresentazione rivoluzionaria del popolo lavoratore basco. Crediamo sia necessario creare da subito un contropotere popolare dal quale adottare forme di organizzazione popolare che contengano il germe di quello che sarà il nuovo potere.

Senza essere di per sé astensionisti, non vediamo come utile la partecipazione elettorale nel nord imperialista globale, soprattutto nello Stato Spagnolo con le sue istituzioni e leggi fasciste, come quella sui Partiti. Se ci saranno le condizioni o opzioni per farlo in una maniera utile per la classe operaia non scartiamo la partecipazione a priori, ma la scartiamo in quanto opzione strategica per le condizioni attuali. Oggi entrare nel circo elettorale non porta nulla di più che l’inganno.

Per concludere

Vogliamo dire infine che questo testo è una sintesi e che ciascuno dei temi esposti ha molta più complessità e che ci sono tematiche che non abbiamo trattato. Tutto questo lo faremo in analisi e testi futuri. Anche così crediamo però che questo programma fornisca alla nostra organizzazione una base teorica solida da cui partire per esercitare una prassi rivoluzionaria e che inoltre ponga pubblicamente una proposta unitaria rispetto alla necessaria creazione di un’organizzazione per i marxisti-leninisti di Euskal Herria. Per questo da ora cambiamo il nostro nome da Bultza Herri Ekimena a BULTZA (EHM-L), ritenendolo più consono a questa nuova fase e ai suoi obiettivi.

Invitiamo tutti e tutte coloro che siano disposti ad organizzarsi intorno al progetto o che vogliano portare contributi o critiche costruttive a rivolgersi a noi di persona per coloro che ci conoscono personalmente e tramite l’indirizzo mail bultzaehml@protonmail.com o tramite social network a coloro che non ci conoscono.

Speriamo di aver dato il via con questo lavoro ad una iniziativa con la quale incontrare persone disposte a fare un passo avanti e a mettersi in gioco per la lotta e la resistenza. Il materialismo dialettico e storico ci insegna che la ruota della storia ci conduce alla fine dell’imperialismo ed al socialismo, ma questi non verranno da soli. Mentre si accumulano le condizioni oggettive, dobbiamo creare le condizioni soggettive per farlo, e come marxisti-leninisti la principale di queste condizioni è il Partito.

JO TA KE IRABAZI ARTE

SOCIALISMO O BARBARIE, PATRIA O MUERTE. VENCEREMOS

BULTZA (EHM-L)

  1. GAL (Grupos Antiterroristas de Liberacion) e BVE (Batallon Vasco Espanol) sono state organizzazioni paramilitari operanti durante e dopo il franchismo nel Paese Basco con l’obiettivo di colpire militanti veri o presunti di ETA e dell’indipententismo abertzale basco. ↩︎
  2. TOP (Tribunal de Orden Publico) e il suo successore AN (Audiencia Nacional) sono tribunali speciali centralizzati negli anni incaricati di giudicare i militanti di organizzazioni rivoluzionarie. ↩︎
  3. Gudari, letteralmente combattente, guerriero, è il nome con cui vengono solitamente chiamati gli indipendentisti baschi. ↩︎

Un bilancio delle piazze per la Palestina, ad un mese dalle giornate del 3-4 ottobre

Un mese fa, con lo sciopero del 3 ottobre e la piazza di Roma del giorno dopo, il movimento di solidarietà con il popolo palestinese ha raggiunto una dimensione di massa che in Italia non si vedeva da almeno una ventina d’anni, dalle oceaniche manifestazioni contro l’invasione dell’Iraq a guida USA ma con l’entusiasta partecipazione, tra gli altri, dello stato italiano.

La novità della mobilitazione, come detto da più parti, è stata nella sua capacità di abbandonare la forma rituale di piazza del presidio/manifestazione/corteo, preferendo invece un conflitto praticato e non più rappresentato, fatto di blocchi a porti, aeroporti, stazioni ferroviarie, autostrade.

Oltre al risultato concreto di aver impedito la partenza di alcuni carichi di merci destinati alla macchina genocida sionista, allargando lo sguardo è possibile apprezzare come lavoratori e lavoratrici siano riusciti per la prima volta da anni ad incidere in modo pesante sulla produzione di valore, che in questa parte di mondo è legata a doppio filo alla circolazione delle merci.
Il risultato è stato quello di costringere lo stesso governo a bloccare alcune spedizioni di materiale bellico, e addirittura di forzarlo ad una parziale apertura riguardo al riconoscimento dello stato Palestinese, che – al netto del significato perlopiù simbolico del gesto e delle ridicole condizioni poste da Meloni, Tajani e compagnia cantante per attuarlo – è comunque un passo considerevole da parte di uno dei governi più sionisti al mondo, ed uno sicuramente fatto controvoglia.

Se la mobilitazione italiana è stata sicuramente la più conflittuale e concreta, anche nel resto del mondo occidentale il periodo che va dalla fine di agosto fino all’inizio di ottobre ha visto sempre più persone scendere in piazza, in manifestazioni spesso oceaniche, per chiedere la fine del massacro, in molti casi sfidando limitazioni e divieti al diritto di manifestare imposti in nome di un presunto “antisemitismo”, etichetta ormai affibbiata a qualsiasi legittima critica dell’entità sionista.

Pur se iniziato con una spinta puramente umanitaria, è innegabile che questo movimento stesse poco alla volta prendendo coscienza politica, grazie al lavoro paziente di tanti compagni e compagne che sono riuscite a collegare la solidarietà con la Palestina alla tematica del rifiuto della guerra e della sua economia.

Guardando all’Italia poi, è bene notare come per la prima volta da decenni sia stata incrinata l’equiparazione tra legalità e legittimità: quando durante le manifestazioni si sono verificati scontri tra manifestanti e polizia, o danni alla proprietà privata, nonostante l’immancabile condanna di tutto l’arco politico e della stampa, si è visto come sia mancata l’indignazione collettiva. Il “rifiuto di ogni violenza” o quel “così si passa dalla parte del torto” sentito tante volte dopo una manifestazione a questo giro, evidentemente anche davanti alle proporzioni tra qualche doverosa azione di sabotaggio e il massacro indiscriminato protrattosi per oltre due anni, non solo è venuto meno, ma ha lasciato il posto da qualche parte anche a giustificazioni parziali.

Certo non è stato tutto rose e fiori – ricordiamo su tutti l’episodio dei compagni a volto coperto attaccati proprio a Roma il 4 ottobre, con grande giubilo dei media che hanno parlato di “cacciata” – ma si sono visti dei passi nella giusta direzione di rottura del nesso il-logico ormai radicato nella popolazione per cui solo cio che è legale è legittimo.

È quindi anche sotto questa luce che va vista l’accelerazione data dagli USA alla conclusione di un accordo per una tregua, arrivata proprio a pochi giorni dalla manifestazione del 4 ottobre: in quel frangente si è presentata per il capitalismo occidentale la necessità di soffocare sul nascere un movimento che partendo dalla solidarietà internazionalista rischiava di espandersi e generalizzarsi, mettendo a repentaglio la stabilità di un sistema che tra venti di guerra e crisi irreversibile della sua economia non può permettersi passi falsi.

Va detto che anche solo parlare di tregua è eufemistico: Israele continua a bombardare e uccidere, ma soprattutto hanno preso ancora più vigore le operazioni di pulizia etnica guidate dai coloni in Cisgiordania. Nonostante questo, era necessario per il capitalismo a guida USA poter sbandierare la “fine della guerra” per spegnere la spinta a scendere in piazza di milioni di persone in tutto l’occidente, tesi prontamente sostenuta da tutti quei media che a malincuore erano stati costretti ad aprire gli occhi e iniziare a documentare – per quanto in modo annacquato – il genocidio.


Nel frattempo, spentisi i riflettori, la repressione ha ricominciato a fare il proprio lavoro: denunce e perquisizioni a raffica in tutta Italia hanno colpito i compagni presenti in piazza in quei giorni, con ipotesi di reato tra le più varie. Da nord a sud, scuole occupate in solidarietà con il popolo palestinese hanno visto attacchi di squadracce fasciste (ne scriverò più avanti). Lo Stato si sta servendo quindi di tutti i mezzi a propria disposizione, legali e illegali, per fiaccare un movimento che ha davanti a sé la prova del nove.

Il 28 novembre è stata proclamata una giornata di sciopero generale, con manifestazione nazionale il 29 a Roma. È uno schema che chiunque faccia militanza politica ha visto riproporsi, con diverse parole d’ordine, ogni anno all’arrivo dell’autunno, a volte anche con date e appuntamenti in conflitto tra loro da parte di sigle diverse del sindacalismo di base. È però anche lo stesso schema del 3 e 4 ottobre, dell’enorme capacità di mobilitazione che la classe lavoratrice italiana ha dimostrato di avere in quella circostanza e anche dell’incisività dello sciopero sui flussi di merci e persone, sulla produzione, sull’intera economia nazionale.

È presto per dire come andranno quelle giornate, si può però ipotizzare che tanto lo sciopero quanto il corteo vedranno una partecipazione sensibilmente ridotta rispetto ad inizio ottobre, per una miriade di fattori (il “costo” dello sciopero con il carovita che morde, il silenzio in cui la “tregua” ha fatto cadere il dibattito sulla Palestina, forse anche il fattore climatico), ma se non sarà limitata al consueto giro “militante” il sindacalismo di base dovrà essere necessariamente considerare la mobilitazione un successo, direttamente proporzionale alla misura in cui sarà riuscito a costruire una continuità dialettica con la classe operaia e le sue necessità.

Sarà imperativo però già dal giorno dopo mettersi al lavoro per dare una forma più unitaria possibile ad una piattaforma rivendicativa in grado di esprimere i bisogni di lavoratori e lavoratrici, superando settarismi e divisioni varie.

Pur non nutrendo particolari simpatie per USB e per il suo a volte spregiudicato opportunismo sulla questione palestinese (soprattutto per il comportamento in piazza a Roma il 30 novembre del 2024) bisogna riconoscere alla sua organizzazione di aver dato il via a questa stagione di mobilitazione, con lo sciopero del 22 settembre e con la sua presenza nei centri nevralgici della logistica di guerra, ovvero porti ed aeroporti; ha poi avuto la capacità grazie agli stretti rapporti con altre organizzazioni di allargare la portata della protesta fino ad investire la dimensione di massa vista fino a poche settimane fa. Certo, non c’è stata solo USB e questa affermazione non vuole assolutamente mettere a tacere il contributo fondamentale, oltre che delle centinaia di assemblee, collettivi e centri sociali che hanno partecipato e spinto le piazze di tutta Italia, delle organizzazioni della diaspora palestinese, su tutte i giovani palestinesi che pur con mille contraddizioni hanno il merito di non aver mai voluto ridurre la questione al piano strettamente umanitario, rivendicando sempre il sostegno alla Resistenza palestinese e alla necessità di praticare la Resistenza anche qui. È innegabile quindi come, in questo momento, alla testa della mobilitazione con le organizzazioni palestinesi ci sia USB, che ha quindi l’onere di doverla guidare verso un programma politico che sia in grado di collegare idealmente Palestina e Italia, contro la guerra e il sistema capitalista che le causa.