Mamdani, la metropoli e una lezione per noi

Mamdani il socialista?

Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: la vittoria di Zohran Mamdani alle elezioni per il sindaco di New York non è la vittoria del socialismo, come ha starnazzato la destra di qua e di là dall’oceano Atlantico.

Per chi conosce il mondo politico degli Stati Uniti, non è nemmeno sorprendente che un candidato considerato alla stregua di una reincarnazione di Lenin sia in realtà perfettamente allineato alla linea politica dell’impero quando si tratta di guardare al giardino di casa, come già visto per personaggi come Bernie Sanders o Alexandria Ocasio-Cortez, i due esponenti più famosi di quei “socialisti democratici” che rappresentano di fatto lo schieramento più a “sinistra” dell’arco politico parlamentare statunitense.

Mamdani ha vinto le elezioni con un programma sicuramente di rottura, teso interamente ad affrontare la tematica del costo della vita, che da centrale in tutto il mondo occidentale diventa questione di vita e di morte a New York, il centro del centro imperialista. Ma se questa rottura è rappresentata solo da un leggero incremento della redistribuzione della ricchezza, fatto di blocco degli aumenti degli affitti, sostegno alimentare e mezzi pubblici gratuiti – tutte iniziative lodevoli, sia chiaro, e che sarebbe bello vedere anche nelle nostre città – senza mettere in discussione la struttura economica che ha prodotto queste storture, possiamo veramente parlare di rottura?

Mamdani il “pompiere”

Vista più da vicino, l’operazione Mamdani non è poi dissimile da quanto succede in Italia quando le forze della “sinistra”, parlamentare e non (PD e CGIL su tutte), sfruttano la potenza del loro apparato per mettersi alla testa di fenomeni, grandi o piccoli, che esprimono esigenze di rottura con l’ordine della democrazia borghese con il solo scopo di ricondurli all’ovile; l’esempio più recente ovviamente è dato dal tardivo accodarsi della CGIL allo sciopero generale per la Palestina del 3 ottobre, una convocazione arrivata unicamente per togliere al sindacalismo di base la paternità della data e far rientrare la mobilitazione massiccia sviluppatasi in quelle settimane su di un binario di compatibilità democratica, in cui la fine del genocidio si accompagnava inevitabilmente alla condanna di Hamas, alla soluzione dei due Stati e al diritto internazionale, tutte questioni evidentemente superate dalla Storia. Tentativo riuscito in solo in parte, perché se è pur vero che le parole d’ordine inoffensive della CGIL hanno offerto al governo una via d’uscita facile a livello mediatico, le masse scese in piazza in quei giorni hanno espresso concretamente una piattaforma ben più radicale.

Il filo conduttore che lega le elezioni per un sindaco a migliaia di km da qui e uno sciopero generale internazionalista è la volontà da parte della “sinistra” istituzionale di rappresentare l’inevitabilità del capitalismo, di affermare che questo sistema non può essere superato e che dando loro il voto si potrà perlomeno riformarlo. In altre parole, il ruolo del pompiere.

E proprio perché la figura di Mamdani ricopre quella funzione pacificatrice dei conflitti di classe il PD e i suoi alleati ne hanno esaltato la vittoria, innalzandolo ad esempio per una nuova riscossa, perchè in Italia, in fondo, c’è sempre una campagna elettorale da fare.

Che lezione trarre dalle elezioni di New York

L’analisi del voto per il sindaco di New York parla chiaro: Mamdani ha vinto soprattutto nei quartieri popolari, tra i lavoratori, gli immigrati e le minoranze; se una parte di questo voto può essere “associativo” – dopotutto Mamdani stesso è un immigrato appartenente ad una minoranza – è innegabile come la vittoria sia dovuta alle parole d’ordine della sua campagna.

New York è forse la metropoli per eccellenza, il centro primario dell’accumulazione del capitale, e come tale è il luogo al mondo dove è più spinta l’estrazione di valore, che produce lavoro povero, gentrificazione, espulsione di poveri e minoranze dalla città, speculazione immobiliare ecc.

Su scala minore in senso assoluto ma forse non in termini relativi, questi fenomeni sono replicati anche nelle grandi città italiane, in cui a partire dalla crisi del 2008 il grande capitale italiano ha dato un’accelerazione devastante ai processi di messa a valore dello spazio fisico delle città. Questo meccanismo è forse più evidente, e incide di più, nelle grandi città del nord, dove l’espulsione delle fasce più povere di popolazione verso le periferie è avvenuta a suon di “riqualificazioni” di vecchie aree industriali – Milano soprattutto, con la speculazione immobiliare ormai completamente fuori controllo, ma anche Torino o Genova – e nelle cosiddette “città d’arte” come Venezia, Roma e Firenze, in cui la domanda di alloggi turistici ha prodotto l’effetto di desertificare i centri storici e poi a cascata le zone limitrofe, rendendo ormai impossibile ai lavoratori del settore (spesso in nero e con salari generalmente bassi) di potersi permettere un affitto.

E se la situazione abitativa è pessima, non va meglio al resto: è di oggi la notizia che dal 2021 i prezzi degli alimenti sono saliti del 25%, mentre i salari reali sono calati del 7,5%.

In sintesi, i problemi che hanno portato Mamdani a diventare sindaco di New York sono reali, oltreoceano come nelle città italiane.

E nel caso delle città italiane il responsabile è quasi sempre il Partito Democratico, che le grandi città le ha governate quasi tutte negli ultimi anni, proponendo sempre e solo un modello fatto di valorizzazione della rendita immobiliare, di turismo e del lavoro povero che esso genera e di repressione violenta di tutte le forme di incompatibilità con l’ordine borghese della metropoli1, a suon di sgomberi, Daspo urbani e sfratti.

Parole d’ordine chiare per un programma chiaro

Se le parole d’ordine sono chiare, è di vitale importanza impedire alla sinistra elettorale, a cui l’ipocrisia di certo non manca, di farle sue per scopi di campagna elettorale: vale per il PD come per quelle forze che a parole si presentano come diverse salvo poi correre in coalizione.

Per impedirlo è fondamentale che il movimento di massa nato con gli scioperi solidali con la Palestina – e che è atteso alla prova del nove a fine mese – costruisca un suo programma politico che metta al centro le necessità delle classi lavoratrici, coniugandole con la solidarietà internazionalista e l’opposizione alle guerre imperialiste di USA e NATO.

Si parla di programma politico, ma non di elezioni: lo scopo non deve essere quello di mettere un rappresentante in qualche consiglio comunale o in parlamento a fare compagnia ai soprammobili, ma di far fruttare le enormi energie che abbiamo visto essere presenti nella classe operaia nelle scorse settimane per imporre al dibattito pubblico questo programma, per rendere i bisogni di lavoratori e lavoratrici l’obiettivo delle lotte che vengono condotte e per sviluppare ulteriormente il programma, in un ciclo continuo tra elaborazione teorica ed azione politica che deve risvegliare la coscienza di classe sopita e preparare la spallata al sistema capitalista.

  1. Termine qui usato un po’ largamente, ma ci siamo capiti ↩︎

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