Da Milano a Torino
Il 21 agosto scorso è stato sgomberato a Milano, dopo un’esperienza durata 50 anni, il Leoncavallo, una delle esperienze di occupazione più longeve nella storia dei movimenti e probabilmente nell’immaginario di tante e tanti il centro sociale per eccellenza. Il 18 dicembre è stato il turno di Askatasuna, a Torino, che indubbiamente è stato negli ultimi 15/20 anni il centro sociale maggiormente in grado di incidere politicamente nel suo contesto cittadino e di avere un peso – limitatamente ai movimenti – anche a livello nazionale.
Partiamo da un presupposto: ogni sgombero, a prescindere da chi lo subisce, segna un punto politico per lo Stato, per la retorica sul ripristino della legalità, per il rientro nella compatibilità democratica di una parte delle classi lavoratrici legate a quello spazio e quindi segna una sconfitta per i movimenti di classe, quale che sia la loro analisi o il loro collocamento politico. A tutte le realtà che subiscono uno sgombero quindi va inequivocabilmente tutta la solidarietà.
Detto questo, è necessario dirci anche che il Leoncavallo ormai da anni non rappresentava più una realtà politica per chiunque facesse parte di collettivi, movimenti, partiti della sinistra rivoluzionaria: la chiusura verso l’interno dello spazio, la preoccupazione di difendere l’orticello ad ogni costo – anche quello del dialogo con il Comune – hanno progressivamente isolato il Leoncavallo dalle soggettività che avrebbero potuto trarre beneficio dalla sua esistenza e difenderlo – politicamente, perché purtroppo come movimento non c’è più la forza di tirare molotov dai tetti – davanti alla minaccia di sgombero. Su queste dinamiche è stata ottima l’analisi del collettivo Militant.
Diverso il caso, come detto, di Askatasuna: indubbiamente cardine di tutti i movimenti torinesi e punto di riferimento della lotta No TAV in Valsusa, è stato colpito non in un momento di debolezza, ma anzi in un periodo in cui Torino ha espresso un livello di conflittualità tra i più alti in Italia (secondo forse solo a Genova) per quanto riguarda la mobilitazione contro guerra e genocidio, culminata nell’attacco – sacrosanto – alla sede de La Stampa usata come pretesto dal ministro Piantedosi per giustificare lo sgombero. Come detto Askatasuna, che aveva avviato un percorso di semi-regolarizzazione secondo il concetto di “bene comune”, era/è a differenza del Leoncavallo una realtà tutto meno che chiusa su sé stessa, e infatti il corteo di solidarietà contro lo sgombero non ha avuto le caratteristiche di una sfilata come è stato per quello di settembre a Milano, ma una manifestazione viva, conflittuale, che ha messo le basi per dare una continuità all’esperienza di Askatasuna.
La distanza tra Milano e Torino, politicamente, è ben maggiore di quella chilometrica.
L’impatto degli sgomberi
Il governo Meloni sgombera quindi nel giro di 4 mesi il centro sociale più simbolico e quello più “forte” d’Italia. Cosa significa per il movimento? Tutto e niente.
Dal momento che non siamo più negli anni ’70, non esiste in Italia nessun movimento, collettivo politico o gruppo organizzato in qualsivoglia modo che sia in grado di resistere allo Stato sul piano della forza. La difesa di un luogo di per sé illegale come un centro sociale occupato è necessariamente una partita che si gioca sul piano politico: fintanto che uno spazio è vissuto non solo da militanti politici, ma in generale da lavoratori e lavoratrici che vivono in una determinata città, i rappresentanti politici, che si trovano a dover bilanciare le esigenze del capitale e della gentrificazione (rientrare in possesso degli immobili) con la necessità di perpetuare il loro potere politico (elettori scontenti=sconfitta elettorale), rimandano lo sgombero fin quando è possibile, attivandosi eventualmente per trovare soluzioni che consentano uno sgombero “dolce”, ad esempio tramite l’assegnazione di un nuovo spazio. Per quanto sia rischioso il dialogo con le istituzioni, nella misura in cui si rischia di rimanere invischiati in un gioco di scambio tra permanenza nell’occupazione e smorzamento delle posizioni politiche, è indubbio che Askatasuna sia riuscito ad usare a proprio vantaggio il percorso di riconoscimento come “bene comune” proprio in virtù della sua forza politica in città.
Il fatto che, nonostante questa posizione di forza nel suo contesto locale, Askatasuna sia stato sgomberato comunque va letto come il risultato di due congiunture: da una parte, il fatto che queste operazioni di sgombero partono sempre più spesso dai prefetti, che non avendo problemi di rielezione danno il via libera agli sgomberi quando le occupazioni sono più deboli (come ad Agosto per il Leoncavallo) o quando gli eventi offrono una giustificazione inattaccabile (l’attacco a La Stampa per Askatasuna), incassando l’avallo di tutti i partiti politici in nome del ripristino di legalità e decoro; dall’altra parte l’astensionismo crescente, soprattutto tra le classi più povere, rende meno sconvenienti da un punto di vista elettorale operazioni di questo tipo, e infatti il sindaco di Torino si è immediatamente accodato alla decisione del prefetto, ritirando il percorso per la dichiarazione di bene comune. Ovviamente il governo ha avuto il bonus di agire in due città governate dal Partito Democratico, segnando un punto utile in chiave elettorale.
Concentrandosi su Askatasuna, che come detto era estremamente attivo e vitale politicamente, è evidente come l’impatto politico, nel senso in cui lo Stato mostra la sua forza per fiaccare la capacità dei compagni e delle compagne torinesi di esprimere conflittualità, sia potenzialmente devastante, ma fortunatamente il momento storico permetterebbe al movimento di assorbire il colpo, usando anzi questo attacco come una leva per rivendicare con maggior forza quello che ad oggi nelle città è il bisogno primario del proletariato: il bisogno di spazio, abitativo e sociale, libero da gentrificazione e da un carovita che ha raggiunto ormai livelli insostenibili per la maggior parte della classe lavoratrice.
Un altro effetto, forse più trascurato ma decisamente pesante, è quanto sia importante uno spazio occupato per il finanziamento dei movimenti: certo, si possono fare le cene nei circoli Arci o le sottoscrizioni ai cortei, ma avere a disposizione spazi in cui organizzare momenti di cultura e socialità alternativa sono economicamente vitali per tutti coloro che fanno politica dal basso. Senza voler mettere il naso negli affari degli altri, questo effetto sarà probabilmente il peggiore sul medio/lungo periodo.
La fine di un’era?
No, nel senso che l’era dei centri sociali era già finita da un pezzo: i centri sociali come realtà politiche e culturali in grado di esercitare un’egemonia su determinati contesti cittadini o regionali hanno esaurito la loro spinta già dopo la fine del movimento No Global, con un parziale colpo di coda durante le proteste dell’Onda del 2008-2011. Le poche realtà rimaste in grado di mantenere un’importanza nel panorama politico dei movimenti sono fondamentali, ma non hanno la capacità di catalizzare intorno a sé le classi subalterne per portare avanti lotte e rivendicazioni.
I mesi passati hanno mostrato però che la possibilità di costruire un movimento di lotta ampio e in grado di intercettare i bisogni di lavoratori e lavoratrici c’è tutta, e passa attraverso “strutture” con caratteristiche molto diverse dai centri sociali canonici.
La sfida è tutta qui: non bisogna intestardirsi ad occupare per occupare, nella speranza di far rinascere una stagione che non può tornare. Si tratta di partire dalla lotta contro gli sgomberi per costruire soggettività politiche nuove, adatte alla fase che viviamo, in grado di relazionarsi dialetticamente con il proletariato per la costruzione di un programma di rivendicazioni e lotta teso a migliorare le condizioni di vita delle masse.
Le occupazioni, se saranno necessarie, verranno di conseguenza.
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