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Due parole su “contro i re e le loro guerre”

Si è svolta ieri l’assemblea “Contro i re e le loro guerre”, che propone una piattaforma base per iniziare ad organizzare la mobilitazione in questa fase. Dal momento che stando a quanto comunicato un programma vero e proprio verrà definito con una nuova assemblea il 24 e 25 gennaio i commenti saranno limitati a quanto disponibile ad oggi.

Come prima cosa, l’assemblea di ieri segna la fine dell’esperienza della rete “A pieno regime”, nata nell’autunno dello scorso anno per organizzare la mobilitazione contro il ddl 1660 (poi approvato con minime modifiche come decreto legge ad aprile di quest’anno). Anche se di fatto le stesse realtà che costituivano quella rete confluiscono nel nuovo progetto, che quindi va letto in continuità con quel percorso (e infatti anche nel documento uscito dall’assemblea questa continuità viene rivendicata), cambia la parola d’ordine.

La rete “A pieno regime” ed il suo ruolo nel movimento

La rete “A pieno regime” come aggregatore di mobilitazione antirepressivo ha sicuramente prodotto in termini di numeri molto, con il culmine nella manifestazione del dicembre scorso a Roma che, al netto della solita discussione sui numeri, ha sicuramente avuto dimensioni imponenti, con diverse decine di migliaia di persone coinvolte. Il problema principale della rete, e del motivo per il quale non è stata in grado di incidere in nessun modo sul ddl1660 risiedeva in due caratteristiche:

  1. l’approccio emergenziale alla questione, trattata come il tema politico del momento ma senza che questo venisse legato ad una analisi organica della situazione in grado di inserire la lotta contro l’ennesimo decreto sicurezza all’interno di un quadro di mobilitazione più ampio in grado di produrre un incremento del livello di coscienza tra le classi lavoratrici, al contrario di quanto tentato, e in parte riuscito, alla rete “liberi/e di lottare”;
  2. la composizione estremamente eterogenea della rete, che tra le 250 organizzazioni aderenti vedeva soggetti come centri sociali del nord-est e altre organizzazioni “extraparlamentari”, ma anche soggetti istituzionali come Arci, ANPI, segmenti della CGIL e di AVS. È chiaro che organizzazioni diverse non solo per la loro forma, ma anche per la loro composizione – politica, anagrafica e non solo – difficilmente potevano produrre un programma unitario di ampio respiro.

Riassumendo, “A pieno regime” nasce male perché troppo eterogenea, e per non frammentarsi subito affronta la questione repressiva in modo superficiale, limitandosi a porre la repressione come prodotto di un governo fascista a cui opporsi. Non c’è dubbio che il governo Meloni sia figlio del fascismo storico, e che sicuramente in questa fase incarni il fascismo di cui la borghesia ha bisogno per gestire la fase attuale, ma non ci si può dimenticare di quanto abbia fatto negli anni anche il centrosinistra per incrementare il livello di repressione a cui sono sottoposti compagni e compagne in tutta Italia, dai decreti Minniti e Lamorgese ad amministratori locali sceriffo come ad esempio Nardella a Firenze, Sala a Milano, De Luca in Campania e tanti altri.

Dimenticanza che per la rete “A pieno regime” non è casuale, ma è precisamente la chiave che permette a tutte le organizzazioni della sinistra istituzionale – di partito e non – di rifarsi una verginità unendosi nella “grande lotta contro il fascismo”. Si tratta in altre parole di un contenitore utile a tenere la mobilitazione su un piano moderato, con lo scopo di presentare il voto come unico modo per fermare la deriva autoritaria e lo stato di polizia e garantire ai suoi azionisti di maggioranza un ritorno elettorale.

Cosa rappresenta “Contro i re e le loro guerre”

Intanto, il nome: “Contro i re e le loro guerre” prende spunto dal movimento “No Kings”, nato nei mesi scorsi negli USA per protestare contro le politiche sempre più autoritarie di Donald Trump e che hanno portato il mese scorso a manifestazioni oceaniche, con numeri che gli Stati Uniti non vedevano dai tempi delle proteste contro la guerra in Vietnam. Per un resoconto più dettagliato della natura e composizione delle proteste, qui il lavoro di CrimethInc.

“Contro i re e le loro guerre” nasce quindi cercando di importare il livello simbolico dall’estero, che è già un errore di per sé in quanto viene meno l’analisi reale della situazione reale che il marxismo-leninismo ci insegna essere imprescindibile ogni volta che ci si pone l’obiettivo di sviluppare un programma politico.

Inoltre, pur indicando una serie di problematiche concrete che oggi il proletariato si trova ad affrontare (carovita, crisi climatica, economia di guerra), il manifesto conclusivo non riesce – pur ponendo la questione dei rapporti di forza – a formulare l’obiettivo di smantellare il sistema economico che produce le problematiche elencate: il rischio è che questo serva a preparare lo sbocco elettorale alle figure politiche che attraverseranno gli appuntamenti di mobilitazione di questa assemblea.

Come nota ulteriore, è un errore di impostazione enorme mettere insieme, come fatto nel manifesto, figure come quelle di Netanyahu, Trump e Meloni con Putin, Xi Jinping e Modi: non è questione se i secondi siano “re” o meno, quanto il fatto che quelli non sono i nostri nemici. Se l’obiettivo è distruggere il sistema economico capitalista che produce le condizioni di vita attuali di milioni di lavoratori e lavoratrici, il nemico sta in casa nostra ed ha la forma dei “re” e dei loro alleati che si trovano qui da noi, nel centro imperialista. Un passaggio come questo in cui si fa di tutta l’erba un fascio non fa altro che riprodurre per l’ennesima volta il cliché della condanna degli “opposti estremismi”, che è utile solo a riportare le voci di dissenso a un livello di compatibilità con la democrazia borghese.

Se a questo aggiungiamo che questa assemblea si pone come proseguimento naturale dell’esperienza di “A pieno regime”, dobbiamo aggiungere che è cambiato e di molto il contesto che la circonda: non più un panorama fatto di piccoli collettivi che resistono e poche organizzazioni nazionali in perenne lotta per l’egemonia tra di loro, ma un mondo in cui le piazze imponenti per la Palestina dei mesi scorsi e le giornate già previste per il 28-29 novembre hanno permesso al movimento di aumentare la sua riconoscibilità tra la popolazione, ma soprattutto hanno prodotto un livello di consapevolezza diverso tra lavoratori e lavoratrici rispetto alla loro forza collettiva ed alla loro capacità di essere potenzialmente incisivi a livello politico senza necessariamente doversi porre la questione della rappresentanza.

Per questo probabilmente “Contro i re e le loro guerre” è un rischio maggiore per i suoi azionisti istituzionali (AVS, Arci, ecc.), ma proprio per questo è per loro necessario: per non perdere una fetta del consenso su cui si basano le loro strutture, queste organizzazioni dovranno necessariamente trovare un nuovo equilibrio tra una base più radicale di quanto non lo fosse anche solo 3 mesi fa e le loro responsabilità di garanti dell’ordine e della minimizzazione del conflitto sociale. L’auspicio è che questa contraddizione non venga riassorbita e che si produca un effettivo spostamento a sinistra tra le classi lavoratrici, da favorire con la costruzione di un vero programma politico dal basso che ne indirizzi le necessità.

Rimandando per ora un giudizio più completo a dopo la pubblicazione del programma che emergerà dall’assemblea del 24-25 gennaio, l’invito a movimenti, collettivi, realtà sociali è di non aderire a “Contro i re e le loro guerre” per non cadere nell’ennesima trappola costruita dalla sinistra istituzionale per soffocare sul nascere qualasiasi movimento rivendicativo che metta in dubbio il capitalismo e lo stato borghese che ne è garante.


Un bilancio delle piazze per la Palestina, ad un mese dalle giornate del 3-4 ottobre

Un mese fa, con lo sciopero del 3 ottobre e la piazza di Roma del giorno dopo, il movimento di solidarietà con il popolo palestinese ha raggiunto una dimensione di massa che in Italia non si vedeva da almeno una ventina d’anni, dalle oceaniche manifestazioni contro l’invasione dell’Iraq a guida USA ma con l’entusiasta partecipazione, tra gli altri, dello stato italiano.

La novità della mobilitazione, come detto da più parti, è stata nella sua capacità di abbandonare la forma rituale di piazza del presidio/manifestazione/corteo, preferendo invece un conflitto praticato e non più rappresentato, fatto di blocchi a porti, aeroporti, stazioni ferroviarie, autostrade.

Oltre al risultato concreto di aver impedito la partenza di alcuni carichi di merci destinati alla macchina genocida sionista, allargando lo sguardo è possibile apprezzare come lavoratori e lavoratrici siano riusciti per la prima volta da anni ad incidere in modo pesante sulla produzione di valore, che in questa parte di mondo è legata a doppio filo alla circolazione delle merci.
Il risultato è stato quello di costringere lo stesso governo a bloccare alcune spedizioni di materiale bellico, e addirittura di forzarlo ad una parziale apertura riguardo al riconoscimento dello stato Palestinese, che – al netto del significato perlopiù simbolico del gesto e delle ridicole condizioni poste da Meloni, Tajani e compagnia cantante per attuarlo – è comunque un passo considerevole da parte di uno dei governi più sionisti al mondo, ed uno sicuramente fatto controvoglia.

Se la mobilitazione italiana è stata sicuramente la più conflittuale e concreta, anche nel resto del mondo occidentale il periodo che va dalla fine di agosto fino all’inizio di ottobre ha visto sempre più persone scendere in piazza, in manifestazioni spesso oceaniche, per chiedere la fine del massacro, in molti casi sfidando limitazioni e divieti al diritto di manifestare imposti in nome di un presunto “antisemitismo”, etichetta ormai affibbiata a qualsiasi legittima critica dell’entità sionista.

Pur se iniziato con una spinta puramente umanitaria, è innegabile che questo movimento stesse poco alla volta prendendo coscienza politica, grazie al lavoro paziente di tanti compagni e compagne che sono riuscite a collegare la solidarietà con la Palestina alla tematica del rifiuto della guerra e della sua economia.

Guardando all’Italia poi, è bene notare come per la prima volta da decenni sia stata incrinata l’equiparazione tra legalità e legittimità: quando durante le manifestazioni si sono verificati scontri tra manifestanti e polizia, o danni alla proprietà privata, nonostante l’immancabile condanna di tutto l’arco politico e della stampa, si è visto come sia mancata l’indignazione collettiva. Il “rifiuto di ogni violenza” o quel “così si passa dalla parte del torto” sentito tante volte dopo una manifestazione a questo giro, evidentemente anche davanti alle proporzioni tra qualche doverosa azione di sabotaggio e il massacro indiscriminato protrattosi per oltre due anni, non solo è venuto meno, ma ha lasciato il posto da qualche parte anche a giustificazioni parziali.

Certo non è stato tutto rose e fiori – ricordiamo su tutti l’episodio dei compagni a volto coperto attaccati proprio a Roma il 4 ottobre, con grande giubilo dei media che hanno parlato di “cacciata” – ma si sono visti dei passi nella giusta direzione di rottura del nesso il-logico ormai radicato nella popolazione per cui solo cio che è legale è legittimo.

È quindi anche sotto questa luce che va vista l’accelerazione data dagli USA alla conclusione di un accordo per una tregua, arrivata proprio a pochi giorni dalla manifestazione del 4 ottobre: in quel frangente si è presentata per il capitalismo occidentale la necessità di soffocare sul nascere un movimento che partendo dalla solidarietà internazionalista rischiava di espandersi e generalizzarsi, mettendo a repentaglio la stabilità di un sistema che tra venti di guerra e crisi irreversibile della sua economia non può permettersi passi falsi.

Va detto che anche solo parlare di tregua è eufemistico: Israele continua a bombardare e uccidere, ma soprattutto hanno preso ancora più vigore le operazioni di pulizia etnica guidate dai coloni in Cisgiordania. Nonostante questo, era necessario per il capitalismo a guida USA poter sbandierare la “fine della guerra” per spegnere la spinta a scendere in piazza di milioni di persone in tutto l’occidente, tesi prontamente sostenuta da tutti quei media che a malincuore erano stati costretti ad aprire gli occhi e iniziare a documentare – per quanto in modo annacquato – il genocidio.


Nel frattempo, spentisi i riflettori, la repressione ha ricominciato a fare il proprio lavoro: denunce e perquisizioni a raffica in tutta Italia hanno colpito i compagni presenti in piazza in quei giorni, con ipotesi di reato tra le più varie. Da nord a sud, scuole occupate in solidarietà con il popolo palestinese hanno visto attacchi di squadracce fasciste (ne scriverò più avanti). Lo Stato si sta servendo quindi di tutti i mezzi a propria disposizione, legali e illegali, per fiaccare un movimento che ha davanti a sé la prova del nove.

Il 28 novembre è stata proclamata una giornata di sciopero generale, con manifestazione nazionale il 29 a Roma. È uno schema che chiunque faccia militanza politica ha visto riproporsi, con diverse parole d’ordine, ogni anno all’arrivo dell’autunno, a volte anche con date e appuntamenti in conflitto tra loro da parte di sigle diverse del sindacalismo di base. È però anche lo stesso schema del 3 e 4 ottobre, dell’enorme capacità di mobilitazione che la classe lavoratrice italiana ha dimostrato di avere in quella circostanza e anche dell’incisività dello sciopero sui flussi di merci e persone, sulla produzione, sull’intera economia nazionale.

È presto per dire come andranno quelle giornate, si può però ipotizzare che tanto lo sciopero quanto il corteo vedranno una partecipazione sensibilmente ridotta rispetto ad inizio ottobre, per una miriade di fattori (il “costo” dello sciopero con il carovita che morde, il silenzio in cui la “tregua” ha fatto cadere il dibattito sulla Palestina, forse anche il fattore climatico), ma se non sarà limitata al consueto giro “militante” il sindacalismo di base dovrà essere necessariamente considerare la mobilitazione un successo, direttamente proporzionale alla misura in cui sarà riuscito a costruire una continuità dialettica con la classe operaia e le sue necessità.

Sarà imperativo però già dal giorno dopo mettersi al lavoro per dare una forma più unitaria possibile ad una piattaforma rivendicativa in grado di esprimere i bisogni di lavoratori e lavoratrici, superando settarismi e divisioni varie.

Pur non nutrendo particolari simpatie per USB e per il suo a volte spregiudicato opportunismo sulla questione palestinese (soprattutto per il comportamento in piazza a Roma il 30 novembre del 2024) bisogna riconoscere alla sua organizzazione di aver dato il via a questa stagione di mobilitazione, con lo sciopero del 22 settembre e con la sua presenza nei centri nevralgici della logistica di guerra, ovvero porti ed aeroporti; ha poi avuto la capacità grazie agli stretti rapporti con altre organizzazioni di allargare la portata della protesta fino ad investire la dimensione di massa vista fino a poche settimane fa. Certo, non c’è stata solo USB e questa affermazione non vuole assolutamente mettere a tacere il contributo fondamentale, oltre che delle centinaia di assemblee, collettivi e centri sociali che hanno partecipato e spinto le piazze di tutta Italia, delle organizzazioni della diaspora palestinese, su tutte i giovani palestinesi che pur con mille contraddizioni hanno il merito di non aver mai voluto ridurre la questione al piano strettamente umanitario, rivendicando sempre il sostegno alla Resistenza palestinese e alla necessità di praticare la Resistenza anche qui. È innegabile quindi come, in questo momento, alla testa della mobilitazione con le organizzazioni palestinesi ci sia USB, che ha quindi l’onere di doverla guidare verso un programma politico che sia in grado di collegare idealmente Palestina e Italia, contro la guerra e il sistema capitalista che le causa.