Un bilancio delle piazze per la Palestina, ad un mese dalle giornate del 3-4 ottobre

Un mese fa, con lo sciopero del 3 ottobre e la piazza di Roma del giorno dopo, il movimento di solidarietà con il popolo palestinese ha raggiunto una dimensione di massa che in Italia non si vedeva da almeno una ventina d’anni, dalle oceaniche manifestazioni contro l’invasione dell’Iraq a guida USA ma con l’entusiasta partecipazione, tra gli altri, dello stato italiano.

La novità della mobilitazione, come detto da più parti, è stata nella sua capacità di abbandonare la forma rituale di piazza del presidio/manifestazione/corteo, preferendo invece un conflitto praticato e non più rappresentato, fatto di blocchi a porti, aeroporti, stazioni ferroviarie, autostrade.

Oltre al risultato concreto di aver impedito la partenza di alcuni carichi di merci destinati alla macchina genocida sionista, allargando lo sguardo è possibile apprezzare come lavoratori e lavoratrici siano riusciti per la prima volta da anni ad incidere in modo pesante sulla produzione di valore, che in questa parte di mondo è legata a doppio filo alla circolazione delle merci.
Il risultato è stato quello di costringere lo stesso governo a bloccare alcune spedizioni di materiale bellico, e addirittura di forzarlo ad una parziale apertura riguardo al riconoscimento dello stato Palestinese, che – al netto del significato perlopiù simbolico del gesto e delle ridicole condizioni poste da Meloni, Tajani e compagnia cantante per attuarlo – è comunque un passo considerevole da parte di uno dei governi più sionisti al mondo, ed uno sicuramente fatto controvoglia.

Se la mobilitazione italiana è stata sicuramente la più conflittuale e concreta, anche nel resto del mondo occidentale il periodo che va dalla fine di agosto fino all’inizio di ottobre ha visto sempre più persone scendere in piazza, in manifestazioni spesso oceaniche, per chiedere la fine del massacro, in molti casi sfidando limitazioni e divieti al diritto di manifestare imposti in nome di un presunto “antisemitismo”, etichetta ormai affibbiata a qualsiasi legittima critica dell’entità sionista.

Pur se iniziato con una spinta puramente umanitaria, è innegabile che questo movimento stesse poco alla volta prendendo coscienza politica, grazie al lavoro paziente di tanti compagni e compagne che sono riuscite a collegare la solidarietà con la Palestina alla tematica del rifiuto della guerra e della sua economia.

Guardando all’Italia poi, è bene notare come per la prima volta da decenni sia stata incrinata l’equiparazione tra legalità e legittimità: quando durante le manifestazioni si sono verificati scontri tra manifestanti e polizia, o danni alla proprietà privata, nonostante l’immancabile condanna di tutto l’arco politico e della stampa, si è visto come sia mancata l’indignazione collettiva. Il “rifiuto di ogni violenza” o quel “così si passa dalla parte del torto” sentito tante volte dopo una manifestazione a questo giro, evidentemente anche davanti alle proporzioni tra qualche doverosa azione di sabotaggio e il massacro indiscriminato protrattosi per oltre due anni, non solo è venuto meno, ma ha lasciato il posto da qualche parte anche a giustificazioni parziali.

Certo non è stato tutto rose e fiori – ricordiamo su tutti l’episodio dei compagni a volto coperto attaccati proprio a Roma il 4 ottobre, con grande giubilo dei media che hanno parlato di “cacciata” – ma si sono visti dei passi nella giusta direzione di rottura del nesso il-logico ormai radicato nella popolazione per cui solo cio che è legale è legittimo.

È quindi anche sotto questa luce che va vista l’accelerazione data dagli USA alla conclusione di un accordo per una tregua, arrivata proprio a pochi giorni dalla manifestazione del 4 ottobre: in quel frangente si è presentata per il capitalismo occidentale la necessità di soffocare sul nascere un movimento che partendo dalla solidarietà internazionalista rischiava di espandersi e generalizzarsi, mettendo a repentaglio la stabilità di un sistema che tra venti di guerra e crisi irreversibile della sua economia non può permettersi passi falsi.

Va detto che anche solo parlare di tregua è eufemistico: Israele continua a bombardare e uccidere, ma soprattutto hanno preso ancora più vigore le operazioni di pulizia etnica guidate dai coloni in Cisgiordania. Nonostante questo, era necessario per il capitalismo a guida USA poter sbandierare la “fine della guerra” per spegnere la spinta a scendere in piazza di milioni di persone in tutto l’occidente, tesi prontamente sostenuta da tutti quei media che a malincuore erano stati costretti ad aprire gli occhi e iniziare a documentare – per quanto in modo annacquato – il genocidio.


Nel frattempo, spentisi i riflettori, la repressione ha ricominciato a fare il proprio lavoro: denunce e perquisizioni a raffica in tutta Italia hanno colpito i compagni presenti in piazza in quei giorni, con ipotesi di reato tra le più varie. Da nord a sud, scuole occupate in solidarietà con il popolo palestinese hanno visto attacchi di squadracce fasciste (ne scriverò più avanti). Lo Stato si sta servendo quindi di tutti i mezzi a propria disposizione, legali e illegali, per fiaccare un movimento che ha davanti a sé la prova del nove.

Il 28 novembre è stata proclamata una giornata di sciopero generale, con manifestazione nazionale il 29 a Roma. È uno schema che chiunque faccia militanza politica ha visto riproporsi, con diverse parole d’ordine, ogni anno all’arrivo dell’autunno, a volte anche con date e appuntamenti in conflitto tra loro da parte di sigle diverse del sindacalismo di base. È però anche lo stesso schema del 3 e 4 ottobre, dell’enorme capacità di mobilitazione che la classe lavoratrice italiana ha dimostrato di avere in quella circostanza e anche dell’incisività dello sciopero sui flussi di merci e persone, sulla produzione, sull’intera economia nazionale.

È presto per dire come andranno quelle giornate, si può però ipotizzare che tanto lo sciopero quanto il corteo vedranno una partecipazione sensibilmente ridotta rispetto ad inizio ottobre, per una miriade di fattori (il “costo” dello sciopero con il carovita che morde, il silenzio in cui la “tregua” ha fatto cadere il dibattito sulla Palestina, forse anche il fattore climatico), ma se non sarà limitata al consueto giro “militante” il sindacalismo di base dovrà essere necessariamente considerare la mobilitazione un successo, direttamente proporzionale alla misura in cui sarà riuscito a costruire una continuità dialettica con la classe operaia e le sue necessità.

Sarà imperativo però già dal giorno dopo mettersi al lavoro per dare una forma più unitaria possibile ad una piattaforma rivendicativa in grado di esprimere i bisogni di lavoratori e lavoratrici, superando settarismi e divisioni varie.

Pur non nutrendo particolari simpatie per USB e per il suo a volte spregiudicato opportunismo sulla questione palestinese (soprattutto per il comportamento in piazza a Roma il 30 novembre del 2024) bisogna riconoscere alla sua organizzazione di aver dato il via a questa stagione di mobilitazione, con lo sciopero del 22 settembre e con la sua presenza nei centri nevralgici della logistica di guerra, ovvero porti ed aeroporti; ha poi avuto la capacità grazie agli stretti rapporti con altre organizzazioni di allargare la portata della protesta fino ad investire la dimensione di massa vista fino a poche settimane fa. Certo, non c’è stata solo USB e questa affermazione non vuole assolutamente mettere a tacere il contributo fondamentale, oltre che delle centinaia di assemblee, collettivi e centri sociali che hanno partecipato e spinto le piazze di tutta Italia, delle organizzazioni della diaspora palestinese, su tutte i giovani palestinesi che pur con mille contraddizioni hanno il merito di non aver mai voluto ridurre la questione al piano strettamente umanitario, rivendicando sempre il sostegno alla Resistenza palestinese e alla necessità di praticare la Resistenza anche qui. È innegabile quindi come, in questo momento, alla testa della mobilitazione con le organizzazioni palestinesi ci sia USB, che ha quindi l’onere di doverla guidare verso un programma politico che sia in grado di collegare idealmente Palestina e Italia, contro la guerra e il sistema capitalista che le causa.


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